Chavez il caudillo

Da Caracas Vincenzo R. Spagnolo, Avvenire

Strapotere sul Venezuela Ma i poveri non ridono
Resterà in carica fino al 2013 ma ha in mente un referendum per la sua rielezione senza mandato temporale L’opposizione: è un tiranno
L’enorme ricchezza entrata nelle casse dello Stato grazie al petrolio non ha migliorato il tenore di vita. Il suo progetto: cinquanta nuove leggi in otto mesi per spianare la strada al socialismo bolivariano

Chavez
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“Con Chavez, la revolución tiene techos”. La scritta sta lì, sulla parete di un palazzone nei pressi di Maiquetia, a 20 chilometri da Caracas, dove si trova l’aeroporto internazionale Simon Bolivar. Il palazzo è di fronte alle piste dove atterrano gli aerei dall’Avana, che scaricano centinaia di cittadini cubani ansiosi di collaborare con la costruzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Fidel è sul viale del tramonto e così i nuovi pendolari del socialismo in salsa cubana si spostano verso nuovi lidi. La frase accompagna una gigantografia del presidente. E sta a dire – spiega Gustavo, un 50enne venezuelano che ci accompagna – che “il governo si sta adoperando per trovare un tetto, cioè una casa ai milioni di venezuelani che non ce l’hanno. Quel palazzo, l’hanno occupato alcuni cittadini e alla fine il governo lo ha rilevato e dato ai senzatetto. Certo, ce ne vorrebbero di palazzi così, per svuotare i ranchos…”. I ranchos sono le infinite baraccopoli venezuelane: migliaia di casupole, pareti di mattoni a vista e tetti di lamiera, strade che sono vicoli, otto persone in pochi metri quadri.
Andando verso Caracas, stanno come piccoli presepi, addossati a qualsiasi rilievo, con la gente che pullula e i bambini scalzi che attendono il rallentare del Land Rover per chiedere dai finestrini che tu faccia tintinnare qualche spicciolo di Bolivar nel loro barattolo. È lì, in prevalenza, che abitano i poveri: quelli che vivono di carità, di lavoretti o del sueldo minimo, le parrucchiere e gli impiegati, i venditori ambulanti che si alzano alle 4 di mattina per prendere tre autobus e una metropolitana e sbarcare il lunario a Caracas. Sono loro i migliori sostenitori del presidente. “Con Chavez, manda el pueblo, comandiamo noi”, sorride sdentata la señora Lina, arzilla settantenne, con buste di farina di mais in mano, di ritorno da un Mercal, uno dei mercati rionali aperti dal governo. Il presidente li ha conquistati da vero stratega, con missioni porta a porta come “Barrio adentro” (le visite mediche effettuate gratis da operatori sanitari cubani) o “Plan Robinson”, i corsi d’alfabetizzazione per giovani e anziani. “Venezuela ahora es de todos”, recita uno spot del governo, che appare a intermittenza fra un programma e l’altro di Vive, tv di impronta bolivariana.
Il Venezuela ha 26 milioni di abitanti, su un territorio grande tre volte l’Italia. L’economia poggia quasi esclusivamente sui pozzi di petrolio. Eppure, da quando Chavez è presidente, nonostante il prezzo del barile sia passato da 7 a 55 dollari al barile, con punte di 70, l’enorme ricchezza entrata nelle casse dello Stato non ha cambiato di molto la vita delle classi povere. Secondo il Ministerio de viviendas, la miseria e la carenza di case decenti affliggono almeno metà della popolazione, senza contare l’inflazione galoppante (+17% nel 2006, con lo stipendio minimo fermo sui 500mila bolivares, circa 200 euro). E soprattutto l’insicurezza e il crimine (11mila uccisioni nel 2006, 582 a dicembre nella sola Caracas), oltre a rapine, furti e sequestri di persona. Uno dei cavalli di battaglia del principale candidato dell’opposizione sconfitto alle scorse presidenziali del 3 dicembre (4 milioni di voti, contro gli oltre 7 di Chavez), il governatore dello Stato Zulia, Manuel Rosales, è stata proprio la sicurezza. Passeggiando per le strade dei quartieri-bene come Chacao dove vive la piccola borghesia di Caracas, ancora in buona parte schierata con l’opposizione, spicca il pullulare di negozi e centri commerciali con guardie armate e di reti elettrificate a proteggere i condomini, come se fossero campi di concentramento. “Tenemos miedo, abbiamo paura – spiega Octavio, architetto -, non tanto per noi quanto per le nostre famiglie. E così abitiamo dentro quartieri che sembrano riserve indiane: tutto è sorvegliato. Ma tanto le cose accadono ugualmente”. Ma non è solo una preoccupazione della classe media. Dei 40 assassinii a fine settimana, la maggior parte avviene nei barrios popolari, come l’urbanizzazione di Petare, dove le pandillas, le bande giovanili scorrazzano armate e indisturbate. E si può morire in un attimo, solo per aver rifiutato di consegnare un paio di Nike o uno zainetto a un 16enne fatto di bazuco, la droga dei poveri.
La ricetta per i problemi del Paese, ossia una nuova costituzione di stampo marcatamente socialista, Chavez l’aveva in mente da anni. Ma l’ha snocciolata con chiarezza solo il 10 gennaio scorso. Quando ha iniziato il suo terzo mandato presidenziale, lasciando presagire verso quali riforme condurrà il Paese. Ex colonnello dei parà, amnistiato dopo un tentato golpe nel 1992, eletto nel 1998 e confermato nel 2000 (dopo una prima modifica della Costituzione, che vietava un doppio mandato consecutivo) Chavez resterà dunque in carica fino al 2013, ma già all’insediamento ha parlato di un partito unico e di una proposta di referendum per la sua rielezione senza limiti temporali. In realtà, fra proclami quotidiani anti-Bush, alleanze sull’asse petrolifero con Siria e Iran e accordi economici col colosso cinese, Chavez si comporta già come un caudillo. Ora una cosiddetta ley abilitante gli ha accordato poteri speciali, che per l’opposizione gli valgono il nome di tiranno. E che invece Chavez progetta di usare per realizzare in otto mesi 50 nuove leggi che apriranno la strada al socialismo bolivariano: si va da una modifica degli enti locali, così da stroncare il potere degli ultimi sindaci e governatori dell’opposizione; alla nazionalizzazione delle principali aziende del Paese, come il colosso di comunicazioni telefoniche Cantv o la rete Electricidad de Caracas; da una modifica delle norme sulla proprietà privata, con possibili espropri degli immobili di singoli cittadini, fino a una nuova legge sull’educazione, criticata dall’associazione nazionale dei rettori universitari.
Il clima di transizione verso il nuovo regime non è dei più tranquilli. Non nuovo a colpi ad effetto, dopo aver licenziato in passato in diretta tv i dirigenti dell’industria petrolifera Pdvsa, tre giorni fa Chavez ne ha combinata un’altra, sconcertando gli osservatori internazionali e aumentando le preoccupazioni del Dipartimento di Stato Usa. Ha festeggiato con una parata militare il quindicennale del tentato golpe da lui promosso, il 4 febbraio 1992, quando con altri ufficiali tentò di rovesciare il governo del presidente Carlos Andres Perez. Arrestato dopo 24 ore di scontri che fecero centinaia di morti, l’allora colonnello dei parà fu profetico: “Abbiamo perso questa battaglia, ma in futuro ve ne saranno altre che vinceremo”. Deve averlo pensato domenica, mentre il cielo era solcato dai jet da combattimento Sukhoi 30 e dagli elicotteri Mi, venduti dalla Russia al Venezuela. La nostra, ha avvertito, “sarà una rivoluzione pacifica, ma non disarmata”. Nel frattempo però, l’aver festeggiato gli è costato una denuncia per istigazione a delinquere, presentata alla procura generale della Repubblica dal Comando nazionale della resistenza. Forte della fedeltà delle forze armate e di mezzo milione di riservisti, Chavez non dà molto peso alla cosa. Intanto, ha già un nuovo progetto: la costruzione, affidata all’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, di una mega-piramide bianca in cemento armato, alta 100 metri e puntata “come un missile” verso gli Stati Uniti. La metterà sulla cima del monte Avila, che domina la città di Caracas. L’ultimo a costruire qualcosa lassù, a 2.200 metri, era stato un altro militare, di destra però, negli anni Cinquanta: Marcos Perez Jimenez, l’ultimo dittatore del Venezuela.
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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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