Distretto Nord

Lo Sport Straniero e il Vecchio Nemico

Damiano Benzoni

Inno nazionale irlandeseIl 24 febbraio 2007 verrà ricordato come una giornata storica negli annali del rugby. Il pomeriggio rugbistico era iniziato da soli 7 minuti e l’Italia conduceva per 21-0 contro la Scozia a Edinburgo, pronta a strappare la sua prima vittoria esterna nel Sei Nazioni. Mentre gli italiani, ebbri di gioia, festeggiavano la vittoria, a Dublino gli Irlandesi si preparavano ad accogliere la nazionale inglese di rugby a Croke Park. In Irlanda (come anche in Scozia e Galles), gli inglesi sono da sempre chiamati the old enemy, il vecchio nemico, e a Croke Park il rugby è the foreign game, lo sport straniero. Mai come stavolta, però, il legame tra Irlanda, Croke Park, sport straniero e vecchio nemico è stato così stretto. A Croke Park, lo sport straniero non era il benvenuto fino a qualche mese fa quando, vista la necessità di abbattere Lansdowne Road e costruire uno stadio nuovo al suo posto, la nazionale irlandese di rugby ha chiesto ospitalità alla GAA, la federazione degli sport gaelici. La GAA si è trovata di fronte a una decisione epocale. Primo, perché far giocare lo sport straniero nei propri campi avrebbe significato dover cambiare lo statuto stesso della GAA. Secondo, perché far giocare il Sei Nazioni a Croke Park avrebbe significato far giocare il vecchio nemico nel tempio del nazionalismo irlandese, quello stadio già violato, poco sportivamente, dagli inglesi.

Era il 21 novembre 1920. L’aria che tirava a Dublino era tesa: su ordine di Michael Collins, l’IRA aveva ucciso 14 uomini dell’intelligence britannica nei loro appartamenti. Erano uomini della Cairo Gang, una squadra che doveva infiltrarsi nell’organizzazione di Collins. La leggenda vuole che gli inglesi, affamati di vendetta, avessero lanciato una moneta per decidere con quale atto di rappresaglia punire l’attentato dell’IRA. Testa, saccheggio di Sackville Street. Croce, strage a Croke Park. Al Croker, nonostante la tensione palpabile, c’erano diecimila persone. La squadra di football gaelico di Dublino affrontava i rivali di Tipperary. Il match era cominciato da pochi minuti quando i Black and Tans irruppero sul rettangolo di gioco. Croce. I Black and Tans, le feroci forze speciali impiegate dall’esercito britannico in irlanda, aprirono il fuoco sulla folla. I giocatori fuggirono dal campo, lasciando a terra due giocatori: Jim Egan e Michael Hogan. Il primo, solo ferito, sopravvisse, mentre i colpi che crivellarono Hogan si rivelarono mortali. Tra le vittime dell’efferata violenza del vecchio nemico ci furono anche tre ragazzi di 10, 11 e 14 anni e una donna che si sarebbe dovuta sposare cinque giorni dopo, andata ad assistere alla partita con il futuro marito.

Brian O'DriscollC’è da immaginarsi perché dall’alto della Hogan Stand, la curva del Croke Park dedicata al giocatore morto sul campo quel giorno, il vecchio nemico fosse tutt’altro che benvenuto. L’affronto degli inglesi aveva colpito lo spirito nazionale irlandese al cuore. Vari passi dello statuto della GAA parlano di identità nazionale e di un’Irlanda a 32 contee: sia le 26 della Repubblica sia le sei tuttora facenti parte del Regno Unito. Su quello statuto crebbero le lapidi del massacro del 1920: l’articolo 21 e l’articolo 42. L’articolo 21 vietava a chiunque fosse arruolato nelle truppe britanniche o nella polizia nordirlandese di prendere parte alle attività sportive organizzate dalla GAA. L’articolo 42 bandiva gli sport britannici dagli impianti GAA, come il Croke Park. Sport britannici come calcio e rugby. Lo sport straniero.

Quando gli inglesi si presentano sull’erba del Croke Park, l’atterraggio dello sport straniero nel maestoso stadio dublinese è già avvenuto da due settimane: una sconfitta maturata all’ultimo minuto contro la Francia, in quella che molti definiscono la finale del Sei Nazioni, di fronte a più di ottantamila spettatori. Lansdowne Road ha chiuso i battenti da poco più di un mese, l’ultimo giorno del 2006. La nazionale irlandese, senza più una casa, chiede ospitalità al Croke Park e la GAA fa passare una mozione, per 227 voti contro 97. L’articolo 42 viene temporaneamente sospeso, e lo sport straniero viene ammesso al Páirc an Chrócaigh fino al 2008. Dietro al voto, la lotta immane tra i conservatori, che vogliono mantenere gli sport gaelici esclusivo appannaggio dell’identità irlandese, e i progressisti, che si battono perché i giochi della GAA entrino nel terzo millennio, diventando a tutti gli effetti uno sport moderno.

I conservatori storcono tutti il naso quando la palla ovale si stacca dal piede di David Skrela, l’apertura francese, per decollare per la prima volta nel cielo del Croke Park, ma si mordono la lingua. Non riescono invece a trattenersi quando scoprono che gli inglesi invaderanno di nuovo il campo, armati di 22 tra i loro migliori rugbisti e dell’inno nazionale, l’odiato God Save the Queen. Gli eredi del sei volte campione d’Irlanda Joe Barrett annunciano che, in segno di protesta, ritireranno le sue medaglie dal museo del Croke Park. Il Republican Sinn Féin invece proclama una manifestazione contro God Save the Queen nei pressi dello stadio, sperando di ispirare la folla a fischiare l’inno invasore e causando il rinforzo della sicurezza di Croke Park da parte della polizia, preoccupata da eventuali tafferugli. Nel frattempo arrivano gli appelli dell’Arcivescovo di Cashel, membro del consiglio GAA, e di Eddie O’Sullivan, coach della nazionale irlandese di rugby. L’Arcivescovo spiega come sia logico che a Croke Park si debba rispettare il medesimo protocollo che si sarebbe rispettato a Lansdowne Road, mentre O’Sullivan dichiara che, come gli irlandesi esigono rispetto per il proprio inno e per la propria nazione, debbono essere i primi a mostrare quello stesso rispetto verso qualsiasi altro inno e nazione. O’Sullivan ricorda anche che God Save the Queen è stata cantata in un’occasione precedente alle Special Olympics, i giochi riservati ad atleti con disabilità intellettuale, senza causare alcuna polemica.

Vittoria irlandese a Croke ParkIl vecchio nemico ormai è sul tappeto rosso, una delle tante parti di quel protocollo pre-match così lento, studiato e snervante che caratterizza ogni partita della nazionale irlandese di rugby. Su quel tappeto, al Lansdowne Road, gli inglesi suscitarono parecchie polemiche quando, nel 2003, impedirono al Presidente della Repubblica d’Irlanda di passare, violando il protocollo ufficiale. Il Presidente è ancora lo stesso – Mary McAleese, famiglia nordirlandese – e stringe le mani dei giocatori. Prima dei 22 inglesi; poi, accompagnata da capitan Brian O’Driscoll, dei 22 irlandesi. Il protocollo prevede che la McAleese riprenda il suo posto in tribuna d’onore prima che la banda inizi con gli inni. Un protocollo di una lentezza estenuante, quasi fosse pensato per far salire la tensione e far percorrere lo stadio da un brivido: il vecchio nemico è venuto a giocare lo sport straniero sul campo della Bloody Sunday, e sta per cantare il suo inno. Qualcuno ha brividi di raccapriccio, qualcuno teme le rimostranze del Republican Sinn Féin, altri si godono il momento: la folla non fiata e gli inglesi cantano l’inno con orgoglio e convinzione. Gli irlandesi rispondono, prima con Amhrán na bhFiann, l’inno della Repubblica, poi con Ireland’s Call, l’inno della nazionale di rugby irlandese. Inno della nazionale che è riuscita a unire le 32 contee. Dopo che i verdi hanno urlato l’ultimo “We’ll answer Ireland’s call”, la storia si fa da parte e cede il passo al rugby. Gli irlandesi, quando scendono in campo, hanno sempre qualcosa da dire. I greens lasciano tutti a bocca aperta: un’intensità di gioco e una determinazione offensiva fuori dal comune li portano a stravincere: 43-13. Sono evidentemente parecchie le cose da dire stavolta, serbate per gli 80 minuti in cui i greens infliggono all’Inghilterra la sua peggiore sconfitta in 130 anni di Torneo.

Gli inni nazionali a Croke Park

[flv:/flv_video/ire-eng_anthem.flv 425 355]

Tags

Let

Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

Related Articles

Close