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Omaggio ad Adriano Romualdi

Giorgio Locchi, tratto da “L’Uomo libero”

Sono uomo di scrittura, non oratore. Parlare in pubblico è per me compito temibile e, sempre, un po’ sgradito. Questo compito è oggi per me ancora più sgradito del solito, perché, essendo tra gli ultimi a parlare, so che dirò cose da taluno non condivise. Per di più ho il sentimento di avere rispetto agli oratori e autori di comunicazioni che mi hanno preceduto un singolare vantaggio nel commemorare e illustrare l’opera di Adriano Romualdi: e possedere un vantaggio è cosa che non amo.

Questo mio singolare vantaggio è il seguente. Tutti coloro che fin qui hanno parlato di Adriano Romualdi lo hanno conosciuto personalmente, quanto meno ebbero modo di vederlo, incontrarlo, parlargli una o due volte. Avendolo conosciuto vivo, hanno vissuto la sua morte: e oggi sanno che è morto e, inevitabilmente, parlano di lui come di un morto, come di qualcuno che non è più, quand’anche forse in qualche oscuro modo presente. Io vivo da ventisei anni in Francia, lontano dalle cose italiane, e non mai conosciuto personalmente Adriano Romualdi.

Di più: confesso che ho ignorato totalmente la sua esistenza fino a quattro o cinque anni fa, allorché me la apprese un gruppo di giovani italiani venuto a Parigi a cercare idee che evidentemente non aveva. Allora, a poco a poco, ho scoperto l’opera di Adriano Romualdi e l’ho scoperta, per me, viva più di molti viventi, attualissima. Adriano Romualdi è un pensiero è un pensiero che non cessa di parlarmi ed al quale io rispondo. Celebrando Adriano Romualdi, io celebro una presenza viva nel mio tempo e, di questo tempo, parte integrante.

Qualcuno ieri ha raccomandato di “non imbalsamare Adriano Romualdi”. E’ un’idea che per l’appunto, mai potrebbe venire alla mia mente, perché per me Romualdi è vivo – e non si imbalsamano i vivi. E lasciatemi crudamente dire che, ai miei occhi, il divieto di “imbalsamare” Romualdi è un’idea estremamente sospetta. Non voler imbalsamare quel che si ritiene un cadavere, significa in effetti volere che questo cadavere si disfaccia, “puzzi”, e la gente se ne allontani. Significa pretendere che l’opera di Romualdi avrebbe fatto il suo tempo, che essa è superata e sarebbe dunque errore grave “sacralizzarla”, impedendo ai vivi di “superarla”, di andare oltre. Dietro questo modo di pensare e sentire non c’è soltanto, malignamente attivo, quello sciocco pregiudizio “progressista” che a noi, penso, dovrebbe essere estraneo. C’è anche e soprattutto il disegno di relegare in un passato definitivamente morto un’opera ed un esempio d’azione che, ieri come oggi, non cessano di scomodare profondamente e di scomodare, in particolare, proprio certi giovani o pretesi tali che hanno la religione del successo nella società d’oggi tal quale essa è. Non per nulla uno di questi giovani, poco fa, candidamente trovava una ragione di condannare il fascismo proprio nel fatto che esso avrebbe mancato il successo, che avrebbe “perduto”. E il bello è che questo giovane senza dubbio anche vorrebbe richiamarsi a valori tragici ed eroici insieme…

Sì, Romualdi scomoda e non cessa di scomodare per due fondamentali ragioni. La prima di queste ragioni è che egli è, nell’azione e nel pensiero, un esempio raro e quasi unico di coraggio. Impegnato in una carriera universitaria, impegnato politicamente, egli ha avuto il coraggio di non trincerarsi furbamente dietro una maschera, di non aver voluto uscire – a parole o a fatti – dal cosiddetto “tunnel del fascismo”. Egli si è invece proclamato apertamente fascista e si è anzi riconosciuto proprio nella forma del fascismo più compromessa agli occhi del mondo d’oggi e del sistema in cui viviamo. Ma gli esempi viventi di coraggio, per l’appunto, sono la cosa più scomoda e più irritante per chi coraggio non ha…

Romualdi poi scomoda per un’altra non meno importante ragione: a causa della sua onestà intellettuale, anch’essa esemplare. Certi avversari del fascismo ed anche alcuni amici hanno affermato che il pensiero di Romualdi sarebbe stato conformato dal “complesso dei vinti”. Ma Romualdi non è mai stato e non è un vinto, perché non si è riconosciuto e non si riconosce vinto e sempre ha continuato – e con la sua opera continua – a combattere per i suoi ideali. Vinto è colui che la sconfitta costringe a pensare ed agire altrimenti. Adriano Romualdi non ha pensato altrimenti. Egli ha semplicemente constatato una evidenza: che cioè la sconfitta del 1945 aveva radicalmente cambiato la situazione nella quale il fascismo aveva da agire, se ancora voleva essere. Proprio per questo il suo pensiero resta essenziale e non superato: egli ha saputo riflettere sul suo rapporto di fascista con la nuova realtà disegnatasi nel 1945, una realtà che è, immutata, la realtà d’oggi. Romualdi si è chiesto cosa deve e cosa può fare un fascista in un mondo e in una società che hanno messo il fascismo fuori legge. E, poiché ormai i vincitori, divenuti padroni assoluti della parola, offrivano del fascismo un’immagine deformata e falsa, egli ha innanzitutto voluto ben mettere in chiaro cosa sia il fascismo, donde esso provenga, cosa significhi essere fascista.
Laddove altri, piegando intellettualmente le ginocchia, si industriavano grottescamente di “giustificare” il fascismo alla stregua della morale dei vincitori del ’45, Romualdi ha avuto l’onestà intellettuale di dire e affermare chiaramente che il fascismo è rivolta contro il mondo e le società in cui viviamo, che la sua “morale” è totalmente altra, che esso è dunque qualcosa che mondo e società d’oggi non possono accettare. Chi vuol essere in qualche modo d’accordo con questo mondo d’oggi e scendere a compromesso e dialogo con il sistema, non ha il diritto di richiamarsi ad Adriano Romualdi.

Qualcuno si è chiesto ingenuamente cosa farebbe Adriano Romualdi oggi, nell’attuale contesto politico e culturale, se per avventura fosse ancora vivo in carne ed ossa. La domanda retoricamente suggeriva che Adriano Romualdi avrebbe forse subito un’evoluzione, cambiato parere. E lo suggeriva partendo dal presupposto, ritenuto evidente, che in questi ultimi dieci anni la situazione sarebbe radicalmente mutata e che dunque la riflessione storica di Romualdi sulla realtà sarebbe anch’essa mutata. Io – l’ho già detto – ritengo che la situazione rimane essenzialmente la stessa di quella che l’opera di Romualdi affronta. Ma, quand’anche la cosiddetta situazione “politica” fosse mutata, soltanto muterebbe il “da farsi”, non già quel “principio” cui l’azione deve ispirarsi. Del resto, quand’io parlo dell’opera di Adriano Romualdi e della sua vivente presenza, mi riferisco soprattutto alla sua opera di storico, ai suoi studi sul fascismo “fenomeno europeo”. Il fascismo è quello che è. Come tutto ciò che è, esso può morire e uscire dalla storia. Ma, storicamente morto o vivo, esso resta per sempre quello che è: fascismo. Ora, sul fascismo Romualdi ha detto verità essenziali, che permettono di acquisire una più profonda coscienza di ciò che il fascismo è, e, anche, permettono ai fascisti di acquisire più profonda coscienza di cosa essi sono. E’ proprio questo aspetto essenziale dell’opera di Romualdi che io vorrei qui ricordare, anche perché mi sembra che molti preferirebbero dimenticarlo e ignorarlo. Parlarne per me è facile, perché la mia concezione e la mia visione del fascismo sono sostanzialmente identiche alle sue. Le mie affinità elettive con Romualdi anche abbracciano i tempi fondamentali della sua ricerca e della sua riflessione: il carattere “europeo” del fenomeno fascista, l’origine nietzschana del sistema di valori del fascismo, la Rivoluzione Conservatrice (qui intesa come corrente spirituale) hanno una comune “essenza”. Affermare l’europeità del fenomeno fascista comporta un immediato risvolto politico, concernente l’avvenire: agli occhi di Romualdi è proprio nella “essenza” del fascismo che oggi ancora risiede l’unica e sola possibilità di restituire all’Europa un destino storico.

Adriano Romualdi ha chiaramente mostrato che i movimenti fascisti della prima metà del secolo e le varie correnti filosofiche, artistiche, letterarie della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice hanno la stessa comune “essenza”, obbediscono ad uno stesso sistema di valori, hanno un’identica concezione fondamentale del mondo, dell’uomo, della storia. Oggi una nuova intellighentsia di destra vorrebbe invece mettere in contraddizione Fascismo e Rivoluzione Conservatrice, così come d’altra parte, certo al fine di legittimarsi in seno al mondo democratico, mette in parallelo stalinismo e nazionalsocialismo, regimi comunisti e regimi fascisti, grottescamente accomunandoli sotto la stessa insegna di un mal definito totalitarismo. Il Fascismo – dice questa gente- avrebbe semmai sfruttato idee della Rivoluzione Conservatrice, però snaturandole e falsificandole. è dunque necessario, proprio nel quadro di questa celebrazione del pensiero di Romualdi, riaffermare con forza la comune “essenza” del Fascismo e della Rivoluzione Conservatrice, a tal fine, illustrare questa “essenza” e, insieme precisarne il contenuto.

Romualdi ha intuito che l’origine del fenomeno fascista era d’ordine innanzitutto spirituale, radicata in un preciso filone della cultura europea. Quel che più conta: egli ha saputo ritrovare questa origine nell’opera di Nietzsche o, più esattamente, nel sistema di valori propugnato da Nietzsche (e poi, anche, secondariamente, in certi aspetti del Romanticismo, che preannunciano e preparano l’opera di Nietzsche). La tragica, prematura fine non ha consentito ad Adriano Romualdi di inquadrare il suo pensiero in una compiuta visione filosofica della storia e, così, di definire in modo esauriente e con precisione il rapporto genetico che intercorre tra l’opera di Nietzsche, la Rivoluzione Conservatrice e il Fascismo. Bisogna dire che mettere in evidenza questo rapporto non è facile impresa. E non lo è per una ragione assai semplice, a causa della particolare natura dell’opera di Nietzsche, che non è opera puramente filosofica, cioè di riflessione e di sistemazione del sapere, bensì è anche e soprattutto opera poetica, suggestiva, creatrice, che esprime e dà storicamente vita ad un sentimento nuovo del mondo, dell’uomo e della storia. Il rapporto tra comunismo, socialismo e filosofia marxista, teoria marxista è chiaro, tangibile. Socialisti e comunisti sono e si dicono marxisti, anche se poi, fatalmente, ciascuno di essi interpreti Marx a modo proprio. Invece, per quanto concerne i movimenti fascisti un esplicito richiamo a Nietzsche non esiste. In alcuni casi ci si richiama a Nietzsche come ad una fonte come tante altre, come ad un precursore come tanti altri. Ma si dà anche il caso di movimenti fascisti che ignorano Nietzsche o che, mal conoscendolo, ritengono di doverlo rigettare, totalmente o in parte.

I movimenti fascisti della prima metà del secolo sono l’espressione politica, immediata ed istintiva, di un nuovo sentimento del mondo che circola in Europa già a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo. Essi hanno il sentimento di vivere un momento di tragica emergenza e si precipitano nell’azione obbedendo a questo sentimento; agitano una parola politica ma, al contrario di altri partiti, e movimenti, non fanno riferimento ad alcuna precisa filosofia o teoria politica ed anzi quasi sempre assumono un atteggiamento anti-intellettualistico. I movimenti fascisti si coagulano d’istinto intorno ad un programma d’azione ispirato da un sistema di valori che si oppone drasticamente al sistema di valori egualitarista, che sta alla base di democratismo, liberalismo, socialismo, comunismo. Per contro è facile constatare che, in seno ad uno stesso movimento fascista, personalità di primo piano esprimono e difendono filosofie e teorie assai diverse, spesso mal conciliabili e addirittura opposte. La filosofia di un Gentile non ha nulla a che fare con quella di un Julius Evola; Bäumler e Krieck, filosofi in cattedra, erano nazionalsocialisti e nietzschani ma il nazionalsocialista Rosenberg criticava invece duramente aspetti salienti del pensiero di Nietzsche.
Questo è un dato di fatto innegabile, sul quale si sono appoggiati e si appoggiano avversari del fascismo per affermare con intento denigratorio che i riferimenti filosofici del fascismo, quando esistono, sarebbero grottescamente arbitrari, oltreché contraddittori, e che d’altra parte i movimenti fascisti non avrebbero alcun comune “contenuto positivo” dal punto di vista filosofico o teorico.

Questo, lo si sa, è anche il punto di vista di un Renzo De Felice e dunque un punto di vista che resta quanto mai attuale nell’attuale dibattito italiano. L’argomentazione è speciosa, giacchè per negare una unità d’essenza oppone filosofie là dove l’unità è in realtà originariamente fondata da un identico sentimento-del-mondo. Il fascismo appartiene ad un “campo”, opposto ad un altro “campo”, quello egalitarista, cui appartengono democrazia, liberalismo, socialismo, comunismo. è questo concetto di “campo” che permette di cogliere l'”essenza” del fascismo, così come permette di cogliere l’essenza di tutte le espressioni dell’egalitarismo. Questo, Romualdi lo aveva visto benissimo, lo aveva affermato in modo assai chiaro. Concludendo il breve saggio premesso alla sua antologia di passi nietzschiani, egli ha scritto: “Di fronte a Nietzsche si scindono i campi. Agli altri la loro intollerabile saccenteria sociale e umanitaria, l’utopia di progresso di una umanità di zeri. A noi la coscienza, che Nietzsche ci ha dato, di ciò che fatalmente verrà: il nichilismo!”.

In questo brevissimo squarcio, tutto o quasi tutto l’essenziale è detto. Ed è detto, nel modo più pregnante, quel che i movimenti fascisti e la Rivoluzione Conservatrice debbono a Nietzsche: una coscienza storicamente nuova, la coscienza dell’avvento fatale del nichilismo e cioè, per dirla con terminologia più moderna, dell’imminenza della fine della storia. Cristianesimo in quanto progetto mondano, democrazia, liberalismo, socialismo, comunismo appartengono tutti al campo dell’egalitarismo, del cosiddetto umanesimo. Le loro filosofie ed ideologie differiscono, ma tutte obbediscono ad un stesso sistema di valori, tutte hanno una stessa concezione del mondo e dell’uomo, tutte coscientemente o inconsciamente progettano una fine della storia e sono – dunque – da un punto di vista nietzschano, nichilisti negativi. Il fascismo è l’altro campo, che io ho chiamato sovrumanista con riferimento al movimento spirituale che lo ha generato e lo conforma. Romualdi ha saputo tenere in evidenza, alla stregua dei suoi studi nietzschiani, il sistema di valori del campo sovrumanista e fascista. Romualdi è uno storico e si interessa ad un fenomeno politico: dal punto di vista della politica quel che giustamente lo interessa, è individuare e mettere in rilievo il “principio d’azione” ed il “fine” comune a tutti i movimenti fascisti. Egli ha ritrovato il principio d’azione – ripeto – nel sistema di valori propugnato da Nietzsche, ed il “fine” comune nell'”uomo nuovo”, cioè nella fondazione di un nuovo cominciamento della storia, al di là dell’inevitabile fine della storia cui ci condannano due mila anni di egalitarismo e umanesimo. Tutto ciò ci dice donde viene il fascismo, cosa esso ha voluto e vuole, qual sia stato in fondo il suo implicito metodo d’azione (che, sia detto tra parentesi, è quello di un nihilismo positivo, che vuol far tabula rasa per costruire, sulle rovine e con le rovine, un mondo nuovo). Non ci dice però cosa sia il fascismo, cosa sia il sovrumanismo che lo genera, lo sostiene, lo indirizza. In una parola: non ci dice cosa sia l’essenza del fascismo, pur rilevando ed affermando che essa esiste. Romualdi è uno storico, non un filosofo della storia. Ora, cosa sia l’essenza del fascismo soltanto la filosofia può dirlo, in virtù d’una riflessione sulla storia del fenomeno fascista, così come proprio Romualdi ha saputo – insieme a qualche altro – metterla in luce.

Io ho tentato di spiegare cosa sia l’essenza del fascismo in due saggi pubblicati in questi ultimi tre anni: uno si intitola appunto L’essenza del fascismo; l’altro, più ampio, è dedicato a Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista. Il quadro d’una conferenza non è certamente adatto ad una disquisizione di ordine filosofico ed io non tengo ad annoiarvi. Mi limiterò a riassumere nel modo più semplice possibile il risultato dei miei studi, che possono essere considerati una continuazione ed un approfondimento di quelli di Adriano Romualdi.
L’essenza del sovrumanismo, come quella del resto di ogni tendenza storica, va ricercata nella sua fondamentale concezione del mondo, dell’uomo e della storia. Questa concezione, che prima di essere tale nasce come immediato sentimento e immediata intuizione, è intimamente legata alla concezione del tempo della storia. Il “tempo della storia” è argomento che a prima vista può sembrare estremamente arduo, ma di fatto è nozione che tutti posseggono, magari senza rendersene conto.
Il mondo antico aveva una concezione ciclica della storia, riteneva che ogni momento della storia fosse destinato a ripetersi. Il tempo stesso della storia era rappresentato come un circolo, aveva natura lineare. Con il Cristianesimo nasce un nuovo sentimento del mondo, dell’uomo, del tempo della storia. Questo tempo della storia resta lineare; però non è più circolare, bensì segmentarlo, più esattamente parabolico. La storia ha un inizio, un apogeo, una fine. E non si ripete. Alla storia d’altra parte è attribuito un valore negativo: provocata dal peccato originale, la storia è traversata di una valle di lagrime. L’avvento del Messia, apogeo della storia, avvia la redenzione, cioè la liberazione dell’uomo dal destino storico, l’apocalisse, l’avvento finale di un eterno regno dei cieli. Questa concezione della storia, mitica nel cristianesimo, sarà successivamente ideologizzata e, infine, “teorizzata” dal marxismo; ma resta nei suoi tratti essenziali la stessa: al posto del peccato originale troviamo in Marx l’invenzione dello sfruttamento della natura e dell’uomo da parte dell’uomo stesso; la lotta di classe e l’alienazione che ne consegue configurano la traversata della valle di lagrime; l’avvento del Messia si mondanizza in avvento del proletariato organizzato dal partito comunista o socialista; il Regno dei Cieli diventa regno della libertà, in cui è abolita la lotta di classe e, insieme, la stessa storia (che Marx chiama preistoria).

La concezione sovrumanista del tempo non è più lineare, bensì afferma la tridimensionalità del tempo della storia, tempo indissolubilmente legato a quello spazio unidimensionale che è la coscienza stessa di ogni persona umana. Ogni coscienza umana è il luogo di un presente; questo presente è tridimensionale e le sue tre dimensioni, tutte date insieme come sono date insieme le tre dimensioni dello spazio fisico, sono l’attualità, la divenutezza, l’avvenire. Ciò può suonare astruso, ma soltanto perché da duemila anni siamo abituati ad un altro linguaggio. Di fatto, la scoperta della tridimensionalità del tempo, una volta avvenuta, si rivela una sorta di uovo di Colombo. Cos’è in effetti la coscienza umana, in quanto luogo di un tempo immediatamente dato a ciascuno di noi? E’, sulla dimensione della personale divenutezza, memoria, cioè presenza del passato; è, sulla dimensione dell’attualità, presenza di spirito all’azione; è, sulla dimensione dell’attualità, presenza di spirito all’azione; è, sulla dimensione dell’avvenire, presenza del progetto e del fine perseguito, progetto e fine che, memorizzati e presenti allo spirito, determinano l’azione in corso.

Questa concezione tridimensionale del tempo è la sola che possa logicamente affermare la libertà dell’uomo, la libertà storica dell’uomo.

Nella visione cristiana la storia dell’uomo è predeterminata dal disegno divino, dalla cosiddetta provvidenza; in quella marxista dalla materialistica legge dell’economia, della quale gli uomini possono soltanto prendere coscienza. In queste concezioni della storia e dell’uomo, la libertà umana resta in realtà un flatus vocis, in esse l’avvenire è sempre determinato dal suo passato. Il sentimento tridimensionale del tempo rivela che l’uomo è storicamente libero: il passato non lo determina più, non può determinarlo. Ciò che noi fin qui abbiamo chiamato passato, passato storico, non esiste infatti che a condizione di essere in qualche modo presente e presente alla coscienza. In sé, in quanto passato, esso è insignificante, o più esattamente, ambiguo: può significare cose opposte, rivestire valori opposti: ed è ciascuno di noi, dal suo personale “presente”, a decidere cosa esso debba significare in relazione all’avvenire progettato. Il cosiddetto passato storico è materia tornata allo stato bruto, materia bruta offerta a ciascuno di noi perché costruisca la sua propria storia. Questa ambiguità del passato si offre sempre in modo quanto mai concreto alla nostra decisiva significazione. Così, ad esempio, noi siamo eredi di un mondo europeo, che a sua volta può essere considerato erede del mondo pagano e di quello semitico-giudaico. Se, dal presidente che è nostro, queste due eredità si rivelano inconciliabili, sta a noi decidere quale è la nostra vera origine. Adriano Romualdi – sia detto per inciso – ha saputo anche qui scegliere e decidere chiaramente, serenamente: in favore dell’origine indo-europea, con decisione scaturente dal suo progetto d’avvenire “europeo”.

Poeti, pensatori, artisti, filosofi conservator-rivoluzionari e fascisti hanno spesso saputo dare espressione a questo istintivo sentimento del tempo tridimensionale, illustrandolo con l’immagine della sfera (e non già, lo ripeto, con quella del circolo). Questo sentimento, quand’anche quasi sempre inconscio, sorregge il pensiero politico ed i giudizi storici dei movimenti fascisti e si riflette immediatamente nei loro vocabolari, insieme ad una nuova parallela concezione dello spazio della storia, cioè della società umana. La razionalità del discorso fascista non può essere spiegata che in relazione al “principio” che lo regge: e questo principio è per l’appunto la tridimensionalità del tempo della storia. Quando il fascismo parla in termini di linguaggio ricevuto, esso si afferma conservatore (o reazionario) e insieme rivoluzionario (o progressista), proprio perché questi termini non descrivono più direzioni opposte del divenire in seno ad un tempo tridimensionale.
Nel fascismo il richiamo ad un mitico passato, scelto tra i passati possibili, coincide con la scelta stessa del progetto d’avvenire: la divenutezza scelta altro non è, per così dire, che la memoria stessa dell’avvenire progettato e, insieme, l’attualità che in esso rivive, vive e sempre tuttavia si accinge a vivere. Qui sta anche la ragione del travagliato rapporto che gli stessi pensatori e uomini politici fascisti hanno con la cosiddetta tradizione, quando non hanno ancora acquisito chiara coscienza del sentimento del tempo che purtuttavia li anima. E’ che essi continuano a pensare la “tradizione” cui si riferiscono come se questa esistesse ed avesse significato indipendentemente dalla scelta che essi hanno operato. Ogni movimento fascista si è sempre richiamato ad una “origine” e con essa ad una “tradizione”: romanità nel fascismo mussoliniano, germanità nel nazionalsocialismo, “regalità cattolica” di un cattolicesimo che è quello immaginario del “dio biondo della cattedrale” nel fascismo maurrassiano, e così via. Se il rapporto di certi fascisti con la tradizione è travagliato, è – ripeto – non si rendono bene conto di cosa intendono con tradizione. E’ facile peraltro constatare che i movimenti fascisti si richiamano sempre ad una “tradizione” perduta o quanto meno soffocata e in mortale pericolo. Questo, a pensarci bene, significa che i movimenti fascisti di fatto sceglievano – contro una “tradizione affermata”, predominante in seno alla società trovata – una “tradizione” morta oppure repressa e condannata a vivere sotterraneamente, viva soltanto in una ristretta cerchia di iniziati.
Il richiamo fascista alla tradizione è così di fatto scelta contro la “tradizione” affermata negli istituti sociali e nel costume delle masse, ed è scelta di una tradizione “perduta”, di una tradizione che in realtà ha cessato di essere tale. Proprio perché l’origine scelta non è più socialmente affermata, i movimenti fascisti, quando giungono al potere, diventano spiccatamente pedagogoci, nell’intento di forgiare l’uomo nuovo di una tradizione avvenir che ancora non è. Avversari del fascismo hanno parlato a questo proposito – cito Hans Mayer – di «detestabile confusione di passato e avvenire, di nostalgia delle origini e utopia del futuro». Ma ciò che agli avversari del fascismo appare detestabile da un punto di vista etico e dal punto di vista della razionalità, è proprio l’essenza del fascismo, è la concezione nuova del tempo della storia, di un tempo tridimensionale in cui passato e futuro, origine e fine storico non gli si contraddicono e oppongono, bensì insieme armoniosamente costituiscono, con l’attualità, il presente stesso della coscienza storica nuova raggiunto dall’uomo nuovo fascista.

La concezione sovrumanista del tempo, dicevo, rende manifesta la libertà storica dell’uomo. Questa libertà storica dell’uomo comporta il confronto e la lotta nel quadro d’un destino eroico e tragico insieme. Ogni azione storica in vista di un fine storico è libera, non dipende da altra cosa che da se stessa ed il suo esito, dunque, non è iscritto in nessuna fatalità.

La storia stessa dell’umanità è libera, non predeterminata, perché essa scaturisce dalla libertà storica dell’uomo. La storia è sempre, in ogni suo presente, scelta tra opposte possibilità. La fine stessa della storia è una possibilità, proprio perché in ogni momenti l’uomo è libero di scegliere contro la propria libertà, libero di abolire la propria storicità, libero di porre fine alla storia. Questo è la scelta nichilista di cui parlava Adriano Romualdi a conclusione del suo saggio su Nietzsche, la scelta compiuta coscientemente oinconsciamente dal campo egalitarista. L’altra scelta è scelta della propria storicità umana, scelta – come diceva Martin Heidegger – di una nuova “più originaria origine”, che è anche nuova origine di storia. Scegliere questa possibilità significa scegliere i mitici antenati che scelsero in favore della storia e nello stesso tempo significa voler divenire gli antenati di una umanità nuova, rigenerata.

Le ultime parole del saggio di Adriano Romualdi su Nietzsche sono una citazione di alcuni versi di Gottfried Benn, poeta a lui particolarmente caro. Vorrei, in suo nome ricordarli oggi:

E poi occorre tacere ed agire
sapendo che il mondo rovina
ma tenere impugnate le spade per l’ultima ora…

Tacere: perché il nostro discorso – fuori dalle nostre catacombe – è discorso fuori legge. Ma nondimeno, tacendo, agire in obbedienza a quel principio e a quell’ideale che, da sempre, sono i nostri.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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