Valerio Fioravanti è un uomo libero. Finita la libertà condizionata
Potrà ottenere la patria potestà sulla figlia e riavere il passaporto
ROMA — A ventinove anni dalla strage di Bologna il colpevole ufficiale dell’eccidio — uno dei tre individuati dai processi — è un uomo libero. L’ex terrorista «nero» e pluriergastolano Valerio Fioravanti, condannato al carcere a vita anche per la bomba del 2 agosto 1980 — della quale s’è sempre proclamato innocente, a differenza che per gli altri omicidi, ma è un particolare che non incide sulla vicenda giudiziaria — è uscito definitivamente di prigione e non ha più alcun obbligo da rispettare. Ha chiuso i conti con la giustizia italiana, e ora avvierà le pratiche per ottenere la patria potestà sulla figlia e per riavere il passaporto.
Valerio Fioravanti, 51 anni compiuti nel marzo scorso, è un uomo libero nonostante il «fine pena mai» stampato sui suoi fascicoli perché così prevede la legge. Senza gli sconti concessi a «pentiti» o «dissociati » della lotta armata ma grazie ai benefici previsti per tutti i detenuti. Ergastolani compresi. Dopo ventisei anni trascorsi in cella (che in realtà sono un po’ meno grazie all’abbuono di tre mesi per ogni anno, altra regola generale), se hanno tenuto «un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento», hanno anch’essi diritto alla liberazione condizionale: cinque anni di prova senza rientrare in carcere nemmeno la notte, durante i quali restano il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza e altri obblighi. Fioravanti, arrestato nel 1981, l’ottenne a primavera del 2004, e quindi adesso la sua pena è «estinta», come recita il codice.
È successo a decine di ex-terroristi di sinistra e di destra, e pure gli altri due condannati per la strage di Bologna sono su quella strada. Francesca Mambro, moglie di Fioravanti, è in «condizionale » da quasi un anno; Luigi Ciavardini, per il quale la sentenza definitiva è arrivata solo nel 2007, è «semilibero» dal mese di marzo: la sera deve tornare in carcere, ma di giorno può uscire. Forse anche per questo lo slogan scelto dall’Associazione «2 agosto 1980» per il ventinovesimo anniversario grida: «La certezza della pena in questo Paese è riservata esclusivamente alle vittime e ai loro familiari».
Slogan amaro, ma la certezza della pena in Italia prevede proprio che — secondo la lettera della Costituzione e i criteri stabiliti dai codici — un giorno possa avere un termine anche per gli ergastolani «ravveduti». Le vittime e i loro parenti possono legittimamente rammaricarsene, però questi sono i principi fissati dalla legge. Ma nel caso della strage di Bologna c’è qualcos’altro che agita le celebrazioni: la volontà di difendere una sentenza di condanna che, seppure molto sfrondata rispetto al numero di imputati iniziali, ha raggiunto una «verità giudiziaria ». Soprattutto dopo che le perplessità sulla reale colpevolezza dei tre allora giovanissimi neofascisti (uno addirittura minorenne) si sono estesi a molti. Perfino negli ambienti politici di sinistra.
Nel Paese delle stragi impunite, Bologna si tiene strette le condanne ottenute dopo ben cinque processi, ne rivendica la legittimità contro chi vorrebbe togliere l’aggettivo «fascista» dalla lapide che ricorda gli 85 morti nella sala d’aspetto della stazione. E’ naturale che sia così, anche se i dubbi cresciuti nel tempo derivano da diverse «stranezze» emerse dalle indagini e dai dibattimenti; a cominciare dalle dichiarazioni del super-testimone che accusò Fioravanti e Mambro, ambigua figura la cui attendibilità si può definire quanto meno opinabile. Tuttavia c’è una sentenza definitiva, criticabile finché si vuole, da rispettare come tutte le altre.
I condannati si proclamano innocenti, ma non è questo che conta. Conta piuttosto che, anche a volerla prendere per buona, quella sentenza non racconta tutta la verità. Ne manca comunque un pezzo. Se pure quei tre «ragazzini » avessero messo la bomba (e non si capisce con quale movente), non ci sono i mandanti né gli intermediari che avrebbero reclutato la manovalanza. Quelli ipotizzati nelle inchieste sono stati assolti nei processi che, sentenza dopo sentenza, perdevano ogni volta un pezzo; e le condanne dei depistatori non spiegano tutti i buchi rimasti vuoti.
Le sentenze definitive, insomma, non possono accontentare chi pretende giustizia per i morti del 2 agosto e continua a chiedere che tutti i veli vengano sollevati. Difficilmente la sempre invocata caduta dei segreti di Stato — peraltro mai comparsi in questa vicenda — potrà aggiungere nuovi tasselli; così come, sull’altro fronte, sembra complicato che la pista «medio-orientale», alternativa a quella neofascista, possa arrivare a riaprire il caso di fronte a nuovi giudici. Eppure servono conclusioni più complete. O più convincenti. Anche se il tempo passa, e nel frattempo i colpevoli ufficiali chiudono i conti con la giustizia. Alla prossima celebrazione saranno passati trent’anni, ma la verità sulla strage di Bologna ancora non c’è.