Sovraesposti

Anatomia di un clan

di Antonio Menna, febbraio 2005

Camorra, la piaga di Napoli

Un gruppo è nascosto nei pressi dell’altra abitazione di cui ha disponibilità Nunzia; vi sono poi le abitazioni ubicate nella zona del Buvero, presso la famiglia Sorrentino: si tratta di due abitazioni che sono ubicate in un palazzo; ancora, l’abitazione della suocera di Pasquale o’ Vichingo, ubicata nel rione Gescal; l’abitazione della suocera di Paolo De Lucia (famiglia Altamura). Ci sono altre case nel Terzo Mondo che non saprei indicare”. Sono le 23 e 55 di una serata di fine novembre; nel carcere di Poggioreale ci sono il pm della Direzione distrettuale antimafia Giuseppe Corona, due agenti di polizia penitenziaria e due carabinieri del Reparto Operativo di Napoli. Hanno di fronte un detenuto, Pietro Esposito (arrestato due giorni prima per l’omicidio della giovane Gelsomina Verde), il quale sta snocciolando i luoghi dove i latitanti potrebbero trovare rifugio.

Camorra a Napoli“Ho chiesto di parlare con lei – esordisce Esposito davanti al magistrato – perché voglio chiarire cosa è accaduto la sera dell’ omicidio e voglio parlare di alcuni fatti che si stanno verificando attualmente a Secondigliano. Rappresento che voglio essere protetto e che la protezione deve essere estesa anche alla mia convivente e ai miei figli”. Si apre quella sera, nella saletta colloqui del carcere napoletano, il sipario sul clan Di Lauro: un teatro di morte, affari, sicari, rituali di malavita, boss, latitanti, summit, zone e capizona, donne del capo, accordi e tradimenti, droga. E soldi, soldi, soldi.

Le dichiarazioni di Esposito danno la possibilità agli inquirenti di intrecciare vicende personali, ricostruire fatti, capire l’organizzazione. Ma i carabinieri non arrivano impreparati all’appuntamento con le dichiarazioni del pentito. Già da tempo, infatti, tengono sotto controllo l’organizzazione criminale di Secondigliano. Per un curioso caso gli inquirenti, ancor prima che scoppiasse la faida tra i Di Lauro e gli scissionisti, stavano effettuando un’inchiesta su un giro di auto rubate e avevano sotto controllo alcuni gregari del clan. Da quella indagine, da quelle intercettazioni, avevano già capito che quei ladri d’auto, quegli specialisti nei cavalli di ritorno, non erano solo “semplici” ladri di periferia: c’era di più. E le dichiarazioni di Esposito confermavano quelle sensazioni.

Il pentito riempie pagine e pagine di verbali, racconta tutto quello che sa e anche quello che ha sentito dire: i carabinieri, intanto, piazzano cimici. Con le loro intercettazioni entrano nelle auto dei gregari, nelle case dei boss, raccolgono gli sms e provano a decifrarli, impiantano una microspia perfino in un televisore destinato a un covo di latitanti. Così, da un orecchio ascoltano Esposito e dall’altra si sintonizzano sulla vita quotidiana del clan. Il tutto, nel bel mezzo di una faida sanguinosa, che lascia decine di morti sul selciato. Alla fine, arriva il blitz. In due colpi, i carabinieri smantellano il clan Di Lauro. Prima arrestano una ventina di uomini di spicco, poi arrivano a mettere le mani su Cosimino, il rampollo di famiglia e capo sanguinario. Nelle carte di quegli arresti, una vera e propria saga di camorra, una sorta di romanzo popolare, un grande, a tratti terribile, racconto di che cos’è la camorra, oggi, a Napoli, nel cuore di una guerra. La Voce è in grado, in esclusiva, di ricostruire la tela di segreti del clan Di Lauro, cominciando dalla nascita di questa potente organizzazione criminale e finendo con il blitz che, alla fine di una minuziosa opera di investigazione e di intelligence dei carabinieri diretti dal generale Giuliani, ha assestato un colpo durissimo a capi e gregari.

Come nasce un clan

Camorra, il boss Cosimo Di LauroPaolo Di Lauro, 52 anni, latitante da nove, accusato di associazione camorristica e di omicidio, si forma alla scuola dei Nuvoletta di Marano. Proprio con il boss (in carcere) Angelo Nuvoletta e con i pezzi da novanta Antonio Ruocco (deceduto), Raffaele Abbinante (in carcere) e Ciro Cappuccio (all’ergastolo per l’uccisione di Giancarlo Siani), Di Lauro avrebbe preso parte al duplice omicidio di Vincenzo Pariota e Giuseppe Di Pietro. Sarebbe diventato così, in pieni anni Ottanta, quando la camorra napoletana è divisa tra la Nco di Cutolo e la Nuova famiglia di Nuvoletta e Bardellino, tra i luogotenenti più fidati dei maranesi; successivamente diventa il braccio destro di Michele D’Alessandro, il boss di Castellammare di Stabia, a cui offre la sua protezione per garantirne la latitanza. “Ciruzzo ‘o milionario” è un capo attento, cauto: cresciuto alla scuola mafiosa, a un passo dall’affiliazione alla cupola di Palermo, Di Lauro preferisce gli affari alle stragi, le alleanze alle guerre. Negli anni Novanta, infatti, divide il suo potere su Secondigliano con Gennaro Licciardi, detto “a scigna”. Quando Licciardi muore (nel carcere di Voghera), Di Lauro diventa il capo della camorra di Secondigliano ma cerca e trova ‘accordi’ con altri gruppi.

Le zone sono ripartire in maniera rigorosa e ordinata. La Masseria Cardone resta agli eredi del clan Licciardi, la zona di Miano, Piscinola, area Birra Peroni, Ice Snei e San Gaetano al clan Lo Russo; quella di Scampia, Vele, Terzo Mondo e rione Berlingieri (il cuore di Secondigliano) a Di Lauro e il rione Don Guanella al clan Bocchetti. Ciruzzo estende il suo potere anche in altre aree ma costruisce ovunque un gruppo di potere autonomo e organizzato: nel rione Monterosa colloca Raffaele Abbinante, di Marano; a San Pietro a Patierno, nella zona circumvallazione, ai confini con Mugnano, altri sui fidatissimi come Sacco, Prestieri, Grimaldi e Stabile.

I carabinieri del nucleo operativo di Napoli stanno provando a mettere le mani su Ciruzzo ‘o milionario da anni. Nel febbraio scorso, nel corso di un’inchiesta che ha viaggiato in tutto il nord Italia, ci sono arrivati ad un passo, riuscendo ad arrestare il primo figlio di Paolo, Vincenzo, fermato a Chivasso. Ma di lui nessuna traccia: un giorno viene dato per espatriato, forse in Spagna, a Malaga; un altro giorno è segnalato a Secondigliano o a Melito; un altro giorno ancora in Romagna, tra Ravenna e Riccione. Di certo, la sua latitanza è fatta di cautela e attenzione: non ha un cellulare e comunica all’esterno solo con bigliettini scritti a mano. Il suo covo è conosciuto solo ad un paio di fedelissimi e, probabilmente, ai suoi quattro figli prediletti: Vincenzo, appunto, Cosimino, 32 anni, che ha gestito il clan ed è finito in manette poche settimane fa, e i due minori Marco (25 anni, latitante) e Ciro (27 anni, arrestato il 7 dicembre scorso).

La catena di comando

Il clan Di Lauro, prima della raffica di arresti che ne ha scompaginato la composizione, era organizzato con la classica struttura piramidale. Sulla punta più alta c’è Ciruzzo che, a differenza di quanto si dice, controlla ancora l’organizzazione dal suo nascondiglio. Sotto di lui, come capo sul territorio, c’era il figlio maggiore Vincenzo; poi Cosimino. Paolo, Vincenzo e Cosimo Di Lauro erano il cuore del clan, il cui interesse principale è il traffico e lo spaccio di droga, il racket e il reinvestimento in decine di attività turistiche, soprattutto alberghiere e prevalentemente all’estero. Subito sotto i tre, c’erano gli altri due figli, Marco e Ciro. Il primo era responsabile della sorveglianza armata nel rione: Marco reclutava personalmente le sentinelle, provvedeva a esaminarle e a vigilare sul loro lavoro. Ciro, invece, era il contabile, il responsabile economico, quello che divideva gli introiti e teneva i conti.

Una struttura di comando a cinque, dunque, rigorosamente familiare. Il boss e i suoi quattro figli. L’uomo di più stretta fiducia del clan era Giovanni Cortese, detto il ‘cavallaro’, 25 anni, noto alle forze dell’ordine per essere uno specialista nei furti di auto e nei “cavalli di ritorno”, arrestato alla fine di dicembre ad Angri. In realtà, dall’inchiesta, il ruolo di Cortese emerge per essere ben più importante. Il cavallaro, infatti, è il portavoce del clan, quello che porta gli ordini dai capi alla struttura. Il collaboratore più stretto di Cortese è Enrico D’Avanzo, detto ‘erricuccio’. Altro importante uomo di fiducia è Gino Petrone, una sorta di manager delle attività economiche illecite; con lui collabora Nanuccio La Monica. Questo team terrorizzava Secondigliano, con un feroce gruppo di fuoco e una capillare rete di fiancheggiatori. Nel manipolo di killer figuravano Emanuele D’Ambra, Ugo De Lucia, detto ‘Ugariello’, Nando Emolo, detto ‘o’ schizzato’, Antonio Ferrara, detto ‘o tavano’, Salvatore Tamburino, Salvatore Petriccione, Umberto La Monica, Antonio Mennetta. Al di sotto, i fiancheggiatori, cioè i capizona: Gennaro Aruta, Gennaro Marino (passato agli scissionisti), Ciro Saggese, Fulvio Montanino (ucciso in un agguato), Antonio Galeota, Giuseppe Prezioso (guardaspalle personale di Cosimo Di Lauro) e Costantino Sorrentino.

Camorra a NapoliAlla base della piramide, la rete di trafficanti che facevano le puntate con l’estero, la rete di spacciatori, le sentinelle di quartiere. Una organizzazione che complessivamente contava su almeno 300 persone, tutte tenute a stipendio, con una contabilità capillare che non mancava un solo appuntamento. in tuta da killer Una struttura complessa, dunque, dove tutto era inserito in un ordine preciso: c’era il parco macchine e moto, affidato a due capizona; c’era l’armeria, nascosta e collegata a una rete di fabbri pronti a distruggere le armi appena usate per gli omicidi; c’era una rete logistica che consentiva ai killer di andare, subito dopo l’agguato, ad allenarsi in un regolare poligono di tiro dove venivano registrati gli ingressi, in modo da confondere le tracce di polvere da sparo e costruirsi un alibi per eventuali prove da stub. C’era addirittura una rete che forniva l’abbigliamento ai gruppi di fuoco: tute da ginnastica anonime e casco da motociclista integrale, da distruggere subito dopo. Un’organizzazione che non dà spazio a cedimenti e che, al minimo sospetto, inchioda il presunto traditore.

Omicidio in diretta

Ecco come il pentito Pietro Esposito racconta il clima nel quale il gruppo di fuoco si prepara ad un’azione di morte. “Quella mattina vidi nel rione che si stavano preparando due batterie di uomini. Vidi in particolare Ugo, Pasquale, Totore O Marinaro e suo nipote Nino, Peppe a Befana, un altro ragazzo che io chiamo Peppiniello e Nando. Io mi trovavo poco distante insieme ad un mio amico che si chiama Angioletto e ad altri due ragazzi incensurati. Capii subito che si stavano recando a commettere degli omicidi. Successivamente seppi che Nando, Peppeniello e Peppe ‘a Befana si erano fatti preventivamente dare una macchina da un ragazzo che fa i cavalli di ritorno che si chiama Giovanni Di Vaio, una Ford Fiesta di un colore che non ricordo. Con questa auto si recarono nel Terzo Mondo, nei pressi della Caserma, dove si trova un parcheggio, all’interno del quale c’era la vittima, nota con il soprannome di Zi’ Ciccio, che stava leggendo il giornale. Essi lo uccisero, utilizzando armi sulle quali non so dire nulla; poi lo caricarono sulla Fiesta e quindi lo portarono in una strada, dove poi diedero fuoco al suo corpo e all’auto. Dopo aver commesso il duplice omicidio se ne andarono a casa di Totore, che è ubicata a Melito, ma non so dove. In questa casa Luigi De Lucia portò dei vestiti di ricambio ad Ugo. Tale fatto mi venne detto proprio da lui, mentre si accingeva a portare i vestiti”.

Guerra agli scissionisti

La situazione nel quartiere diventa tesa quando esplode la guerra con gli scissionisti, detti anche “gli spagnoli”, un gruppo di ex affiliati al clan che decidono di mettersi in proprio. Si apre nell’organizzazione criminale una vera e propria frattura: comincia la conta. Chi sta da una parte e chi sta dall’altra. Oggetto della contesa, il mercato della droga in gran parte dei rioni di riferimento. Un business miliardario che fa gola a troppi. A dare il via ai malesseri, sfociati nella scissione, è la decisione del capo Cosimino di svecchiare l’organizzazione: alcuni capizona, ritenuti inaffidabili perché avevano trattenuto quote indebite relative al traffico di stupefacenti, andavano sostituiti. Non tutti, però, l’hanno presa bene. Racconta il pentito Pietro Esposito che Cosimo “ha imposto a Melito la presenza di Maione Maurizio, che ha preso il posto di una persona arrestata per estorsione che si dovrebbe chiamare il cinese o il giapponese”. Le dichiarazioni di Esposito consentono agli inquirenti di ricostruire il percorso della frattura. “La scissione si è avuta qualche tempo fa, quando i Di Lauro allontanarono dal clan O’ Lello, Biagino, Cesarino, Pierino, fratello di O’ Lello, ed altri, che si erano presi soldi che non dovevano intascare, ricavati dalla compravendita della droga, da loro introdotta dalla Spagna in Italia. Queste persone si unirono tra loro, anche insieme agli esponenti del gruppo di Mugnano, un tempo legati ai Di Lauro. Insieme agli scissionisti si unirono anche i Maranesi, ossia gli esponenti del gruppo insediato nel rione Monte Rosa e diretto da Papele e Marano. La guerra è iniziata con la morte di tale Giannino, se ricordo bene il nome, un ragazzo che venne ucciso in una Micra rossa. Questo omicidio è stato sempre considerato un fatto commesso dai Licciardi, ma in realtà è stato il primo delitto degli scissionisti. Altra persona uccisa da loro è stata Montanino, detto Fulvietto”.

Pattuglia della Polizia di StatoIl primo omicidio della faida è dunque del 24 marzo dello scorso anno, quando viene ucciso a Secondigliano Francesco Giannino, 23 anni, del clan Di Lauro. Un atto di guerra. I Di Lauro replicano mirando alto. Ad aprile, infatti, in un hotel sulla circumvallazione esterna viene crivellato di colpi Federico Bizzarro, capozona di Melito, ritenuto vicino agli scissionisti. La guerra è già cominciata ma fino a settembre la situazione rimane tutto sommato tranquilla. E’ con l’omicidio di Fulvio Montanino che si scatena definitivamente la rabbia dei Di Lauro, che fino a quel momento avevano risposto colpo su colpo agli attacchi degli scissionisti ma deciso comunque di tenere bassa la guardia e tentare una riconciliazione. Montanino viene ucciso il 28 ottobre, in via Limitone, insieme al nipote Claudio Salerno. Petrone e Tamburino raccolgono subito la notizia e sentono che qualcosa sta cambiando, che sta iniziando la guerra vera.

Petrone: A Fulvio, hanno ucciso a Fulvio
Tamburino: ahh … (incomprensibile)
Petrone: hai capito?
Tamburino: proprio le bombe, proprio, o no? Questo ha detto Cosimino “mo li mando a prendere a uno alla volta … li faccio… malamente” ha detto… tutti quanti…”
Petrone: quelli là… L’importante che ci sta la gente, che “faticano”
Tamburino: Gino, ce ne sono a milioni qua. Sono tutti guaglioni…tutti guaglioni… mo ti faccio vedere che combina quello.

Dalla morte di Montanino comincia un lungo e sanguinoso botta e risposta, con morti su morti: uno, due agguati al giorno, prima i gregari dei due clan, poi i parenti, l’incendio delle case, i pestaggi, i sospetti.

Tamburino: Cosimino è proprio freddo, ha detto “Mangiamo, beviamo, chiaviamo. Che dobbiamo fare… è successo andiamo avanti”
Petrone: ma io non ce la faccio a mangiare. Ho mangiato per mangiare
Tamburino: pure il fatto di Massimino…
Petrone: povero guaglione però… (incomprensibile)… Massimino se ne voleva andare
Tamburino: siamo venuti a saperlo dopo. Però quando venimmo a sapere il fatto di Massimino rimasi… lo sai… Massimino pure era un bravo ragazzo. E’ morto proprio da scemo Massimino.
Petrone: Totore ma non ti fissare
Tamburino: e che ne sappiamo quanti di loro si sono buttati con quelli là… non lo sappiamo!
Petrone: Ah! quanti di loro si sono portati ? Ne sono rimasti un sacco di loro qua Totore! Non ho capito … a questi qua… non gli piacciono i Di Lauro ?
Tamburino: mò chissà come stanno festeggiando la gente. Io se fossi Cosimino sai che farei? Comincerei ad uccidere a tutti quanti. Pure se tenessi il dubbio… (incomprensibile)… a tutti quanti. Inizierei a togliere… hai capito! La prima melma da mezzo.

Raffiche di mitra

La guerra si fa cruenta e arrivano, nella rabbia e nella paura, anche le raffiche di mitra sui carabinieri. Proprio l’episodio dell’agguato a quattro militari in borghese, scambiati per killer mentre giravano in macchina nel quartiere chiamato Terzo mondo, fa capire ai luogotenenti del clan Di Lauro che quella guerra, per come è iniziata, porterà solo danni. L’autore dell’agguato è un gruppo di sentinelle. Il capo di questo gruppo, Giuseppe Grassi, 20 anni, si consegna ai carabinieri. Il tentativo del clan è di allentare la morsa delle forze dell’ordine sul quartiere.

Gelsomina bruciata

Camorra a NapoliLa tensione, già alle stelle nel rione, accende l’immaginario popolare e l’attenzione dei mass media quando a cadere sotto i colpi dei killer è una ragazza di vent’anni, incensurata, uccisa e data alle fiamme. Gelsomina Verde era una ragazza del quartiere; a Secondigliano la conoscevano tutti e viene fatta fuori perché, probabilmente in modo inconsapevole, era diventata una pedina tra le due fazioni in guerra. Gelsomina, infatti, avrebbe avuto relazioni sentimentali con alcuni esponenti del clan. La scissione ha messo uno contro l’altro i gregari delle due fazioni e Gelsomina si è ritrovata ad avere amici di qua e di là. Lei, in mezzo, ci ha rimesso la vita. A raccontare le ultime ore di Gelsomina è proprio il pentito Pietro Esposito, complice degli assassini ed ex fidanzato di Gelsomina. “Quella sera Mina e la sua amica vennero a chiamarmi verso le 22,40. Prima si affacciò mia moglie e poi mi affacciai io. A Mina, con la quale avevo molta intesa in quanto avevo avuto una relazione sentimentale, feci segno di allontanarsi in quanto l’avrei raggiunta dopo poco. Con una scusa, dissi alla mia convivente che uscivo e presi la macchina, la mia Fiat Punto Bianca. Quindi, mi misi dietro all’auto condotta da Mina. Ad un certo punto vidi che l’amica andò via con un ragazzo che era venuta a prenderla con uno scooter. Solo allora mi sono avvicinato ed ho iniziato a parlare con Mina senza che nessuno dei due sia sceso dall’auto. Dopo una decina di minuti, vennero su un ciclomotore tipo SH di colore nero De Lucia Ugo, il cui soprannome è Ugariello, Rinaldi Pasquale, detto Pasquale ‘O Vikingo, e De Lucia Luigi. Ugariello indossava un casco integrale”. “Io, nonostante che il suo viso fosse del tutto coperto, lo riconobbi dalla fisionomia ed anche in un secondo momento, quando si avvicinò a me e mi parlò. Luigi e Pasquale con tono minaccioso entrarono nell’auto ove si trovava Mina, e dissero alla ragazza di spostarsi, visto che ella sedeva sul sedile del guidatore. Al suo posto si sedette Luigi, mentre Pasquale si sedette dietro. Ugo, come ho detto, si avvicinò a me e mi disse di tornare a casa. Ciò fece in quanto io protestai leggermente nei confronti dei tre ragazzi per l’atteggiamento che essi avevano assunto nei confronti di Mina e per il fatto che con il loro modo di fare l’avevano impaurita. Ugo, come ho detto, mi tranquillizzò, dicendomi che non le avrebbe fatto nulla e che dovevano solo chiederle dove si nascondessero i compagni, facendo riferimento a Saracino e agli altri ragazzi che lei normalmente frequentava”. “Io tornai quindi a casa ma mentre stavo andando via vidi che alla 600 si accodò una Y10 di colore blu metallizzato, che era condotta da De Lucia Sergio, zio di Ugo e di Luigi (il cui padre si chiama Paolo). Essi lasciarono il luogo ove mi ero incontrato con Mina intorno alle 23,05 – 23,10. Preciso che quando vidi Pasquale prendere posto sul sedile di dietro mi accorsi chiaramente che egli aveva una pistola nascosta nel suo giubbotto, in quanto per sedersi dovette prenderla tra le mani e riporla tra le gambe. La pistola era di tipo semiautomatico, calibro 9 x 21 di colore cromato. Il giorno dopo mentre guardavo la televisione ebbi la notizia della morte di Mina”. “Quasi contemporaneamente vennero a prendermi De Lucia Paolo e un altro ragazzo che non conoscevo. Mi portarono nello studio della casa dei De Lucia, ove vi erano una persona che io conosco con il soprannome di Totore O Marinaro, De Lucia Ugo, due ragazzi che non conoscevo, De Lucia Paolo, Nando, il ragazzo al quale recentemente hanno ucciso il padre, nonché altri due ragazzi che non conoscevo. Io ero dispiaciuto di quello che era accaduto ma Ugo mi disse che dovevo tranquillizzarmi in quanto Mina, a differenza di quello che credevo, era una poco di buono che andava con tutti e che la settimana prima era stata anche con lui. Aggiunse che aveva avuto l’ordine di ucciderla dall’alto, ossia dai Di Lauro. L’imbasciata era stata portata da Giovanni detto il “Cavallaro”, il quale in questo momento è diventato il portavoce dei Di Lauro. Il motivo dell’eliminazione di Mina consisteva nel fatto che lei parteggiava per gli scissionisti e che con la sua condotta stava mettendo a repentaglio la vita di alcuni esponenti del clan, fungendo da specchietto per le allodole. Aveva fatto ciò anche con il De Lucia Ugo, come mi disse lui in quell’occasione”. L’omicidio di Gelsomina semina sconcerto in tutto il rione. Gli esponenti del clan si affrettano a tranquillizzare tutti, gettando discredito sulla reputazione di Gelsomina al fine di giustificare il loro gesto. Ecco come Gino Petrone racconta a una donna, Annalisa Marrazzo, salita a bordo della sua Renault Clio, l’omicidio di Gelsomina.

Annalisa: Il fatto di quella ragazza…
Petrone: Eh, va bene, ma quello perché, la gente non lo sa… hai capito?
Annalisa: Pure io ho detto… io pure ho detto… no, un nesso ci deve stare… perché sennò è inutile!
Petrone: Quella ragazza lo sai che faceva? Girava lei, vedeva lei chi c’era… una volta che lei vedeva a qualcuno portava spia, tu permetti allora?
Annalisa: Eh…io questo…
Petrone: Questa poi scende… tu per esempio scendi, mi vedi, parli che io, guarda sta Gino là.
Annalisa: Eh, io questo è quello che ho detto, ho detto purtroppo io non penso che…
Petrone: Annalì…
Annalisa: … sono così… cioè sono cose così, sono cose così sceme.
Petrone: Scema… è normale.
Annalisa: Non è così che si uccide, così per uccidere o non… perché… i giornali non lo sanno… che si deve ancora scoprire. Capito?
Petrone: Può scoprire ciò che vuole.
Annalisa: No. Nel senso che… perché è una santa, indubbiamente sarà pure una santa…
Petrone: Quella usciva con uno che se n’è andato con gli scissionisti e usciva pure con Ugariello, con due di loro usciva!
Annalisa: E….
Petrone: Hai capito che voleva fare? Voleva chiamare Ugariello… Amore mio qua è là
Annalisa: Mammina quando ha sentito il fatto di quella ragazza… mamma mia… disse prenditi le cose e vattene.
Petrone: Vabbè, ma tua madre un sacco di cose non le capisce, cioè perché non le sa proprio.
Annalisa: Statti attenta a chi ti dà il passaggio…
Petrone: Ma tua madre non lo sapeva che quella ragazza puzza, puzzava anzi.
Annalisa: Voglio dire… ma tutti quanti ne parlavano di quello che hanno detto tutti quanti… Oh, povera ragazza poi, all’inizio, poi ti metti in un angolo…
Petrone: Perché il telegiornale, all’improvviso… “uccisa una ragazza di 22 anni che faceva volontariato”…
Annalisa: Disperazione della madre… volontariato…
Petrone: Dissi io, e che hanno combinato questi qua? Quello il telegiornale fa vedere quello che vuole…

Intanto la faida continua. Dopo Gelsomina tocca ad altre decine di persone mentre i carabinieri, raccolta tutta la mole di materiale, decidono di intervenire. All’alba del 7 dicembre, mentre centinaia di abitanti del Terzo mondo scendono in strada nel tentativo di bloccare il blitz, i militari del generale Giuliani mettono le mani su gran parte dei protagonisti del clan Di Lauro. Ne arrestano 52. Qualcuno rimane fuori e viene preso dopo. A fine dicembre cade Giovanni Cortese, il ‘cavallaro’. E poche settimane fa Cosimino, il capo dal sangue freddo. Ma nemmeno questi arresti hanno fermato la guerra. E meno che mai, ovviamente, la camorra.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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