Visioni e Metalinguaggi

A caccia di Andrej

Eraldo Affinati, Avvenire

A Tivoli, sulle tracce di Tarkovskij, il regista russo che ha preconizzato Chernobyl, e della sua “Stanza”. Nella convinzione che “il desiderio è una bevanda salata: più ne hai, più aumenta la tua sete”

Se arrivi dalla strada di Tivoli, San Gregorio da Sassola appare improvviso, dopo una curva, sullo sperone di tufo: l’antico castello dei Brancacci, i tetti a strapiombo, il borgo proteso nel vuoto. Qui Andrej Tarkovskij, l’indimenticabile regista dell’Infanzia di Ivan e Andrej Rublëv, visse gran parte del suo intenso e travagliato periodo italiano, poco tempo prima di venire stroncato dal tumore che, alla fine del 1986, lo condusse a una morte rapida, quanto inaspettata, a soli 53 anni.
A San Gregorio molti ancora ricordano quel signore dai lunghi capelli lisci, i baffi a spazzola, lo sguardo asiatico che, insieme alla seconda moglie, bionda e imponente, raggiungeva il paese con l’autobus di linea tornando a casa come uno dei tanti pendolari che fanno la spola con Roma. Nel 1980, quando lasciò l’Unione Sovietica, non riuscendo più a lavorarvi in modo continuativo, avrebbe potuto stabilirsi ovunque avesse voluto. Alla fine scelse una costruzione da riadattare nel parco della Villa Brancaccio, dietro i monti Prenestini. Cosa lo attirava in questa estrema provincia romana? Per chi ne conosca l’opera è facile rispondere. Nelle serre di San Gregorio Andrej Tarkovskij vedeva il fantasma della Russia e parlava con lui: era un colloquio mentale, fatto di emozioni impalpabili, come potrebbero essere quelle provocate dal ramo spezzato sotto il nostro passaggio, dal profumo dei cespugli di more, da una parete scrostata che ci ricorda un giorno lontano dell’adolescenza.

Andrej TarkovskijC’è sempre una distanza da colmare in Tarkovskij, un vuoto angoscioso contro cui egli si batte. L’esilio per lui fu l’esperimento scientifico della vera solitudine, quella cui tutti siamo destinati. San Gregorio, ora lo sappiamo, era un modo per anticipare la morte. In Vento luminoso, uno dei suoi Racconti cinematografici, un personaggio dichiara: “Dio si fa conoscere non grazie a una rivelazione, ma attraverso la contemplazione del mondo”. L’eroe di Tarkovskij appare schiacciato dal peso della responsab ilità: colui che non può permettersi di assumere atteggiamenti sbrigativi nei confronti dell’esistenza; non può fingere. Deve imparare ad accettare il peso dei propri errori, senza pretendere di alleggerirlo scaricandolo su quello altrui.

Il regista acquistò la casa di San Gregorio dalla principessa Fernanda Ceccarelli, vedova Brancaccio. Poi, già coi giorni contati, la vendette. Ora è sepolto a Parigi, nel cimitero di Sainte Geneviève des Bois. Mentre osservo la sua vecchia residenza, penso alla storia di Sardor, uno dei personaggi in cui s’immesimò, il quale cerca di comprare l’isola sul mar Caspio dove il padre, ammalato di lebbra, è stato deportato insieme alla sua gente. I grandi alberi circostanti sono piegati in un gheriglio di foglie secche. Qua e là specchi d’acqua piovana danno all’ambiente un aspetto irreale.
Andrej TarkovskijSulla staccionata mi vengono incontro due ragazzi, uno con l’orecchino, l’altro coi tatuaggi. Alle mie domande sul regista russo cadono dalle nuvole. Poi uno di loro esclama: “Sì, abitava qui. Una vita fa”. Mi torna alla mente una frase di Tarkovskij: “Il tempo c’è solo perché l’uomo non vada in pezzi, perché esista. Quando muore, anche il tempo scompare”. Poco più in là, un vecchio seduto sulla panchina del parco, aggiunge: “Andava e veniva con una grossa borsa, ma non viveva qui”. Quasi lo vedo: il passo agile, da furetto, i movimenti elastici, sempre pronto allo scatto. Era un uomo abituato a vivere con il minimo essenziale. Da ragazzo sua madre lo aveva mandato a studiare in Siberia. Un tavolo, un letto, qualche libro, gli bastavano. Eppure, come ben sa chi ha visto i suoi film, possedeva una straordinaria intuizione della modernità. Torno sui miei passi. Di colpo, San Gregorio non è più Italia. Mentre cammino, l’antica villa diventa la Zona, il territorio inaccessibile e segreto dove, nell’immaginario di Tarkovskij, si nasconde la Stanza in cui gli uomini possono realizzare tutti i loro desideri. Canne storte fra binari abbandonati, cantieri, carrucole, pozzi; in mezzo all’erba alta relitti di automobili bruciate, nell’aria la sensazione di una catastrofe imminente. Le luci del sole che filtra dagli alberi si stampano sul viale come macchie fosforescenti. Il cielo, semicoperto dalla vegetazione, assomiglia a uno scheletro di rami. Il desiderio è una bevanda salata: più ne hai, più aumenta la tua sete. I ragazzi e il vecchio coi quali avevo parlato sembrano corrermi dietro come lupi selvaggi per dirmelo. Ed io penso che Andrej Tarkovskij morì pochi mesi dopo la tragedia nucleare di Chernobyl, preconizzata nel suo ultimo film Il sacrificio. In russo Chernobylinik significa assenzio, il veleno che, nell’Apocalisse di Giovanni, rende amare le acque. Eppure tutto serve.
È questo il senso della frase che nella scena conclusiva di Stalker, pronuncia la compagna del personaggio principale: “E se nella vita non ci fosse dolore, non sarebbe meglio: sarebbe peggio. Perché allora non ci sarebbe la felicità – e la speranza. Ecco”.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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