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Claudio Mutti sugli “Scritti Etnonazionalisti”

lago e montagne

di Claudio Mutti

“Etnonazionalismo” è un neologismo che, se non è stato coniato dagli autori di questo libro, viene comunque da loro assunto come denominazione dell'”ideologia” (p. 3) di cui essi si fanno portatori. Essendo costituito da etno-, elemento di composizione nominale col valore di “nazione” (dal greco ethnos) e dal sostantivo nazionalismo, il neologismo in questione dovrebbe logicamente designare un “nazionalismo della nazione”; concetto, questo, che gli autori del libretto vorrebbero determinare per mezzo dell’aggettivo tedesco völkisch, che essi stessi traducono con “etnonazionale” (p. 4). Ne risulta, quindi, un “nazionalismo nazionalnazionale della nazione”. Ci viene in tal modo fornito l’esempio di un procedimento linguistico che, se ulteriormente applicato, potrebbe dar luogo a formazioni analoghe, quali ad esempio “socialsocialismo sociale della società”, “popolarpopulismo popolare del popolo” ecc. ecc
Scritti Etnonazionalisti di Federico PratiAl ridondante sintagma “etnonazionalismo völkisch”, per fortuna, gli autori cercano di dare un contenuto semantico. “L’etnonazionalismo, e gli etnonazionalisti, – leggiamo a p. 3 – si rifanno al federalismo etnico, forma modernizzata del nazionalismo etnico e dell’ideologia völkisch. Tale ideologia assegna la priorità alla tutela del Volk, inteso come comunità di Sangue e Suolo. (…) Nella nostra visione etnonazionalista la mappa geopolitica dell’Europa deve essere ridisegnata, attraverso la nascita di una federazione europea etnica, costituita da Regioni-Stato, etnicamente omogenee”. Quali siano le “Regioni-Stato” che dovrebbero costituire la “Federazione europea etnica”, gli autori non lo dicono; a quanto ci sembra di capire, tali “Regioni-Stato” dovrebbero coincidere, nel progetto ideale degli autori, con le “nazioni etniche d’Europa”, alcune delle quali vengono esplicitamente nominate: “Veneto, Trentino-Tirolo, Insubria, Occitania, Piemonte, Fiandre, Baviera, Vallonia” (p. 47). Sulla omogeneità etnica di ciascuna di queste regioni ci sarebbe alquanto da eccepire, se si considerano gli effetti dell'”invasione allogena” (p. 46) che negli ultimi decenni le ha interessate. Certo, gli autori potrebbero ipotizzare provvedimenti di pulizia etnica intesi a restituire a tali regioni la loro omogeneità. Ma quali misure potrebbero mai rendere omogenee tutte quelle zone in cui nazionalità diverse vivono da decenni e talvolta da secoli a stretto e immediato contatto le une con le altre? In che modo potrebbero essere rese omogenee non diciamo la Macedonia, che è diventata eponima dell’insalata di frutta, ma anche soltanto la Transilvania, in cui numerosi centri urbani ed agricoli sono condominio di Romeni, Ungheresi, Tedeschi? Sono realtà, queste, che non rientrano nello schema degli etnonazionalisti, i quali affermano testualmente che “lavorare insieme in modo proficuo è possibile soltanto fra unità etniche geneticamente analoghe” (p. 13). Che ne facciamo allora di quelle “unità etniche” (Finni, Careliani, Estoni, Magiari, Turchi, Tatari, Baschi ecc. ecc.) le quali, pur essendo radicate da secoli sul suolo europeo, non sono legate agli altri popoli del medesimo “grande spazio” dal vincolo biologico e quindi non soddisfano il criterio etnonazionalista di “Sangue e Suolo”?
Come “ultimo fulgido esempio” (p. 13) di sistema politico imperiale adatto a garantire la collaborazione tra etnie diverse, gli autori menzionano la duplice Monarchia absburgica, che “già nella prima metà dell’Ottocento ci si preparava a render (…) triplice”, sicché, se non fosse stato per la guerra del 1866, “dopo Vienna e Budapest, Venezia ne sarebbe diventata la capitale” (ibidem). Dobbiamo però osservare, en passant, che prima dell’Ausgleich del 18 febbraio 1867 la Monarchia absburgica non era nemmeno duplice e Budapest non possedeva il rango di capitale. Ma non è tanto su questa svista che intendiamo soffermarci, quanto su di un fatto che dovrebbe interessare gli etnonazionalisti: l’Impero austriaco prevedeva, in materia di emigrazione all’interno dell’area imperiale, norme che difficilmente potrebbero apparire fulgide ed esemplari ai fautori delle “piccole patrie” etnicamente omogenee. Si consideri infatti l’art. 4 della Legge costituzionale austriaca del 21 dicembre 1867: “Il libero passaggio delle persone e delle sostanze da un luogo all’altro del territorio dello Stato non sottostà ad alcuna restrizione. (…) La libertà di emigrare non è limitata per parte dello Stato, se non dagli obblighi del servizio militare”. D’altronde, mentre gli etnonazionalisti vagheggiano “uno Stato che coincida con un’etnia” (ibidem), la concezione politica che ispirava l’Impero austriaco era invece multietnica e sopranazionale: “Tutti i popoli dello Stato appartenenti a razze diverse sono eguali nei diritti, ed ogni singola razza ha l’inviolabile diritto di conservare e di coltivare la propria nazionalità ed il proprio idioma” (art. 19). Oltre a ciò, l’Impero era pluriconfessionale: “Il godimento dei diritti civili e politici è indipendente dalla confessione religiosa” (art. 14); “ogni chiesa ed associazione religiosa riconosciuta dalla legge ha il diritto di esercitare pubblicamente e in comune la propria religione” (art. 15).
Tra i pensatori che gli etnonazionalisti indicano come particolarmente vicini alle loro posizioni c’è Guillaume Faye. Che questo intellettuale della destra “identitaria” possa essere considerato un “etnonazionalista völkisch”, non lo si può certo negare. Ma proprio in un caso come quello rappresentato da Guillaume Faye emerge l’incompatibilità fra l’etnonazionalismo e l’idea imperiale europea.
Non potendo qui dilungarci ad illustrare tale affermazione, rinviamo il lettore all’analisi critica del pensiero di Guillaume Faye che è stata effettuata da Tahir de la Nive nel libro Les Croisés de l’Oncle Sam (Avatar 2003, distrib. Edizioni all’insegna del Veltro).
Un altro nome citato dagli autori laddove essi indicano il loro “punto di riferimento culturale” (p. 5) è quello del defunto democristiano bavarese Franz Joseph Strauss, sostenitore dell’Internationales Institut für Nationalitätenrecht und Regionalismus. Abbiamo anche qui un caso particolarmente istruttivo del nesso che lega il particolarismo etnico e regionalista con il filoatlantismo. Strauss infatti, oltre ad essere uno degli artefici di quello che fu chiamato “l’asse Tel Aviv – Bonn” (Tadeusz Walichnowski, L’axe tel Aviv – Bonn et la Pologne, Interpress, Varsavia 1968), fu un accanito partigiano dell’Alleanza Atlantica, che secondo lui avrebbe dovuto agire anche nei confronti del Vicino e Medio Oriente, dell’Africa e dell’America Latina. “L’America, dopo il 1945, unica difesa dei popoli liberi” – scriveva Strauss in un suo testo programmatico pubblicato da Volpe Editore nel 1967 col titolo Un piano per l’Europa.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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