Edoardo Castagna, Avvenire
IL CASO: I movimenti di “resistenza” in Cisgiordania e a Gaza spesso reclutano adolescenti, anche come kamikaze. Però l’Unicef fa finta di non vedere
Tra i quattordici e i diciassette anni vengono definiti “bambini” se sono vittime, “giovani” se carnefici. Ragazzini arruolati fin dal 1969
A chiamare le cose con il loro nome è invece l’antropologo americano David M. Rosen, che dedica un’intera sezione del suo Un esercito di bambini ai piccoli “martiri” palestinesi. Risale addirittura al 1969 il primo utilizzo, da parte dell’al-Fatah di Arafat, di bambini soldato: due tredicenni, che il 9 settembre assaltarono con le bombe a mano la sede di Bruxelles della compagnia aerea israeliana El Al.
Solo esempi: l’elenco, naturalmente, non è completo. Ma è più che sufficiente a mostrare che il ricorso ai bambini soldato, in Palestina, non è né casuale né sporadico, ma una scelta sistematica. Le varie organizzazioni paramilitari o manifestamente terroristiche, da al-Fatah ad Hamas, dalla Jiahd islamica alle Brigate dei martiri di al-Aqsa, negano, da sempre. Eppure lo “Human Rights Watch” (“Osservatorio sui diritti umani”) non si stanca di mettere in guardia contro questi disconoscimenti, che glissano sul tema dell’età, che minimizzano l’opera di reclutamento, che definiscono gli atti dei ragazzini del tutto indipendenti e volontari.
Eppure un sedicenne, condannato all’ergastolo da un tribunale militare israeliano per aver tentato di farsi esplodere su un autobus, ha confessato nel 2002 di esser stato reclutato da Hamas.
Eppure la stessa Jihad islamica ha ammesso, in un caso sempre del 2002, di aver insegnato a guidare a un sedicenne per poterlo utilizzare come autobomba kamikaze. In fondo, in tutto questo non c’è nulla di sorprendente. L’opinione pubblica palestinese, come quella araba più in generale, è ampiamente comprensiva – quando non apertamente a favore – dell’impiego dei kamikaze.
L’Intifada, dal 1987, vide sempre in prima linea ragazzini, spesso bambini con meno di dieci anni. Resta tutto da spiegare, allora, l’assordante silenzio delle agenzie internazionali, Onu in testa, sui bambini soldato palestinesi. L’Unicef, l’agenzia della Nazioni unite che si occupa di infanzia, dedica molta attenzione all’endemico conflitto israelo-palestinese. Lamenta puntualmente – e giustamente, ci mancherebbe – le vittime dei conflitti a fuoco e delle rappresaglie israeliane. Si preoccupa che “bambini e adolescenti, che costituiscono oltre metà della popolazione palestinese, stanno vivendo in un drammatico stato d’assedio”. Denuncia la precarietà economica, sociale e sanitaria dei giovani arabi di Cisgiordania e Gaza. Puntualmente, con note che si susseguono a cadenza mensile.
L’Unicef sposa pienamente i dinieghi ufficiali di Hamas & C., e chiude tutti e due gli occhi sui dati, incontrovertibili, riguardo l’età dei giovani combattenti. E, quando elenca i suoi sforzi contro la piaga dei bambini soldato, allinea Afganistan, Angola, Burundi, Colombia, Costa d’Avorio, Liberia, Uganda, Repubblica democratica del Congo, Sierra Leone, Somalia, Sudan e Sri Lanka.
Non manca proprio nessuno?