Da Belfast, Andrea Varacalli – Avvenire
È stato il primo capitano cattolico della nazionale nordirlandese, ma le minacce di morte e il suo esilio forzato in Scozia, rimangono il simbolo di un Paese ancora ostaggio dell’intolleranza religiosa
Da una parte e dall’altra del muro. Sono palloni distanti un metro, ma lontani una vita intera. Un calcio di destro e un piatto di sinistro sulla parete di cemento, prima che la palla torni indietro e tocchi terra.
All’ombra della “peaceline”, le magliette taglia small del Celtic di Neil Lennon e del Rangers F.C. dardeggiano sotto i grugni e lentiggini degli “scugnizzi” di est Belfast. Da una parte e dall’altra, cattolici e protestanti; da Short Strand a Shankill, senza mai potersi vedere, divisi da 21 chilometri di barricate alte fino a sedici metri. “Lennon is a taig, and we didn’t want him to play at Windsor Park”. Un taig.
Capitolo chiuso fino al 2006 e 2008, malgrado l’esilio forzato in Scozia. Anni in cui Lennon fu aggredito dagli squadroni ultraprotestanti di Glasgow poco dopo la fine di un derby della “Old Firm” con i Rangers. Perde coscienza, si sveglia in ospedale. Da allora Dublino e Belfast hanno patteggiato sulla formula che i calciatori d’estrazione cattolica e nazionalista possano indossare la maglia dell’Eire, anche se nati nelle sei contee nordirlandesi, politicamente parte del Regno Unito.
Separati in casa fin dalla nascita, dietro un muro del fragile processo di pace, in una società fortemente dualistica in cui il calcio non è stato e non sarà l’eccezione per integrare queste due comunità. “Il tempo sembra essersi fermato”, racconta l’attore Patrick Kielty nella straordinaria messa in scena teatrale Una notte di novembre. Notte della qualificazione per i Mondiali Usa tra Irlanda del Nord e Eire giocata a Windsor Park dentro un anello formato dall’esercito inglese e migliaia di truppe a Belfast. “Treats for Six”, urlavano in 15mila dagli spalti unionisti parafrasando il gioco dei bambini all’uscio delle case durante Halloween. I sei, sono sei cattolici massacrati dalla Ulster Freedom Fighters (UFF) a Greysteel il 30 ottobre del 1993, due settimane e mezzo prima dell’incontro. È questo senza dubbio il momento più acuto della tensione settaria nella provincia dall’inizio dei “troubles” che come spiega Kielty si è “cristallizzato” dal 20′ del primo tempo di 17 anni fa, fino a oggi, a solo un mese dall’attacco alla famiglia dello stopper cattolico del Fulham, Chris Baird. Hanno tentato di bruciare viva la madre, la sorella e suoi figli a Rasharkin incendiando la loro casa al termine di una delle più violente stagioni orangiste nella provincia britannica.
Muri di silenzio avviluppati nell’inettutudine degli ambasciatori del calcio internazionale e del loro torpore dorato, ma che si turbano alla fine del tunnel degli spogliatoi del Linfield Fc di Windsor Park. Baroni incapaci di accorgersi dell’urlo di un paese unico in Europa e della sua gente. Una terra di nessuno che sogna con gli occhi e piedi degli “scugnizzi” di Belfast una crepa in quel metro di cemento.