Distretto Nord

North Belfast: attacco razzista contro famiglia sudanese

Mohammed Idris e la sua compagna

Un uomo del Sudan, la cui abitazione è stata attaccata per la sua origine, ha detto che l’incidente lo ha sconvolto, dopo essere stato accolto a braccia aperte dai suoi vicini

In due case di Glenrosa Link, North Belfast, verso le 2:30 della notte di giovedì, sono state infrante le finestre.

Nessuno è rimasto ferito ma la polizia dice che l’attacco è di matrice razzista.

Una delle famiglie vive a Belfast da due anni mentre l’altra famiglia si sarebbe trasferita oggi.

Mohammed Idris, la sua compagna e il figlio di 7 anni, sono a Belfast da oltre ventiquattro mesi.

L’uomo ha detto di aver udito il rumore di vetri infranti nel cuore della notte e di essersi svegliato.

“Eravamo terrorizzati e scioccati” ha detto Idris.

“I vicini sono persone molto gentili, tutti i bambini giocano con mio figlio e mi salutano sempre.

“Questo non ce lo aspettavamo”.

Mohammed Idris ha lasciato il suo paese perché non si sentiva al sicuro e ha trovato inizialmente rifugio a Dublino nel 2007, prima di spostarsi a Belfast nel 2012.

L’attacco è avvenuto nel giorno del compleanno di suo figlio.

Ha aggiunto: “Adesso mio figlio non vuole uscire a giocare. Questa mattina mi ha detto di voler restare in casa”.

Idris si dice determinato a non lasciare l’abitazione dopo l’attacco, mentre l’altra famiglia non è sicura di volersi trasferire.

I vicini hanno detto a Utv di essere rimasti disgustati dall’attacco.

Il consigliere DUP Guy Spence ha riferito che la comunità è in fermento e sostiene le famiglie.

Spence ha affermato: “La comunità è arrabbiata e scioccata.

“La famiglia è benvoluta e rispettata.

“Il figlio frequenta la vicina scuola primaria Currie e molti bambini dell’area erano invitati alla sua festa di compleanno.

“Gli ho fatto visita e ho offerto il mio sostegno, come hanno fatto molti altri, e faremo tutto il possibile per aiutarli”.

L’attacco è l’ultimo di una lunga serie avvenuta in città.

Secondo i dati riferiti dalla PSNI lo scorso anno gli attacchi razzisti sono aumentati in tutta l’Irlanda del Nord, in particolare a Belfast.

La polizia ha istituito una linea telefonica dedicata per ricevere denunce di sospetti crimini razzisti.

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René Querin

Di professione grafico e web designer, sono appassionato di trekking e innamorato dell'Irlanda e della sua storia. Insieme ad Andrea Varacalli ho creato e gestisco Les Enfants Terribles.

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One Comment

  1. 1944-2014: a settanta anni di distanza, un ricordo di
    SARA CHE NON VOLEVA MORIRE…

    (Gianni Sartori)

    Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono…
    Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
    Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
    Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
    Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri di Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
    Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l’ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
    In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
    In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
    Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
    La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
    Gianni Sartori (settembre 2014)

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