Viene presentato oggi [30 novembre 2006] al Festival Grinzane Cinema un filmato sulla poetessa. Che racconta: “Ho scritto migliaia di composizioni, ma non ne ho conservata nessuna. Le do via: sono solo un riflesso”
Se la sua vita è un continuo remake, come raccontarla? Da quale versione partire? Sono queste le domande che mi sono posto quando, nel 1987, ho portato per la prima volta Alda Merini in televisione. Era molto prima di molte cose. Del suo infinito successo mediale, prima di tutto.
Avevo letto un suo piccolo libro e lei era ancora semplicemente l’inquieta poetessa dei navigli, uscita da poco da uno dei suoi lunghi soggiorni in ospedale psichiatrico. L’ho subito invitata a Specchio della vita, su Telemontecarlo. È stato emozionante e difficile. La Merini in uno studio tv è una promessa non mantenibile. Come accade spesso con la sua poesia, anche il fluviale racconto della sua vita straordinaria può contenere scorie, interruzioni, voli improvvisi e ricadute violente. Un programma in diretta raramente corre questi rischi. In seguito Alda Merini ha cominciato a frequentare con più assiduità la tv. Ed è diventata improvvisamente un trompe l’oeil ammaliante. Ma ho avuto sempre l’impressione che la sua vita vera rimanesse a lato del proprio racconto, come la sua poesia è stata, per sua definizione, “un’esplosione a lato della sua vita”. Così, tredici anni fa, sono arrivato a casa sua con un due telecamere per cercare di sorprenderla nella sua “verità”.
Il racconto “regolare” della sua vita l’ho ricavato dalle immagini giuste della prima telecamera. Il delirio dall’altra: mossa, irregolare, “viva”. All’improvviso l’immagine tradizionale si congela e in dissolvenza appare l’altra. È sempre lei, Alda, ma è diversa: “Ho visto veramente morire la realtà e risorgere”. È il delirio che emerge; se preferite, la sua poesia che sgorga. Ho lavorato per giorni al montaggio: “Ho scritto migliaia e migliaia di poesie. Ma non ne ho conservata nessuna. Le regalo via. Per me conservo i sentimenti che le hanno animate. Quelli sono i miei ricordi. Nelle poesie c’è solo l’effetto, di quei sentimenti, c’è quello che rimane in superficie, ma l’uomo è rimasto mio. Nelle poesie c’è il riflesso, che è un riflesso falso, perché sempre molto lontano da quello che ho provato. Dissi una volta “il vero diario della mia vita non è mai stato scritto. Il vero diario non sarà mai scritto”. Quello che ho provato fino in fondo, le torture che ho subito e gli elettroshock che me le hanno fatte dimenticare sono finite dentro la mia anima. Qualche volta affiorano dal profondo, ma in sordina. Anch’io sono vittima del mio stesso mistero”.
Ma se la sua vita è un continuo remake, non potevo fermarmi ad una sola versione. Così, qualche tempo fa sono tornato nella sua casa, a sorpresa e le ho fatto rivedere quel ritratto che non aveva mai visto e non ricordava di aver girato. Rivedendosi, si è messa in discussione, contraddetta, rivelata.
In quelle nuove immagini c’è il tempo, che scorre come il Naviglio, in una strana cornice. C’è uno dei suoi tanti amori, finito tragicamente “Titano è morto, l’ho ucciso io. È morto di freddo”; c’è la sensazione che il successo non sia stato nient’altro che una dimensione invivibile. C’ è la sensazione che la certezza di essere stata una madre perfetta si sia dissolta da tempo: “Non è vero. Non sono state una buona madre. Sono stata una madre difficile”. Ho rimontato quei materiali, rinunciando al secondo piano, quello del delirio. E la verità che emerge da un lunghissimo lavoro di elaborazione è un’emozione più forte della sua stessa poesia. Per questo ho intitolato il documentario finale “Più della poesia. Qualche giorno nelle vite di Alda Merini”. Vite, al plurale. Che convivono nello stesso istante. Dove la poesia è “un paio di scarpette rosse, che ti stringono, ti fanno male”. Due Alde si incastrano e si fanno da eco, e non è detto che il primo sia il passato e il secondo il presente. Convivono e si scontrano, dando vita a una terza, che non sarà mai definitiva.