Les Enfants Terribles

Il lato sinistro del cuore

di Carlo Lucarelli, tratto da “Vorrei essere il pilota di uno Zero”, Mobydick, Faenza, 1994

Mi ricordo che faceva dondolare una pantofola, in bilico sulle dita di un piede e che si teneva l’accappatoio di spugna stretto con le braccia, davanti, seduta sul bracciolo di una poltrona. Aveva i capelli ancora umidi, lunghi e neri, raccolti su una spalla, perché stava facendo la doccia quando ero arrivato a casa sua con quaranta minuti di anticipo. Non so se ero stato io a sbagliarmi sull’ora quando mi aveva telefonato, quella mattina, ma non aveva importanza. Il cliente ha sempre ragione.
“Guardi che io non sono un investigatore privato… non esattamente. Mi occupo di recupero crediti, passaggi di proprietà di auto, affitti, rate… gente che non vuole pagare”.
“Il giornale diceva investigatore privato, lunga esperienza nella polizia…”
“Sì, ero un poliziotto ma ecco… non mi sono mai occupato di incarichi investigativi. La storia che mi ha raccontato, poi…”
“Non è una storia”.
“Va bene, l’episodio che mi ha riferito, allora… non l’ho mica capito. Lei, quell’uomo, lo ha sognato o c’era davvero?”
Mi aveva guardato, anche questo me lo ricordo bene, mi aveva guardato in faccia e credo che fosse la prima volta che lo faceva da quando ero entrato in quella stanza. Io l’avevo guardata subito, invece, molto carina, molto abbronzata, il volto rotondo e quegli occhi così randi, neri come i capelli. Aveva qualcosa di strano nello sguardo e per un attimo pensai che fosse leggermente strabica e invece no… anche la bocca, con le labbra sempre strette, leggermente piegate all’ingiù, aveva qualcosa di strano… non so, un taglio infantile. Aveva ventitre anni mi disse dopo, ma ne dimostrava molti di meno.
“Non lo so se c’era davvero. Prendo delle pillole per dormire in questo periodo… però quando mi sveglio, la mattina, mi sembra sempre di ricordare che a un certo punto della notte apro gli occhi e lui è lì, in camera mia, davanti alla porta o su una sedia… di solito sono così intontita che non riesco neanche a vederlo in faccia e mi riaddormento subito come un sasso”.
“E questo avviene tutte le notti?”
“Tutte le notti che dormo da sola”.
“E cosa farebbe questo tipo?”
“Niente. Mi guarda dormire… o almeno, mi sveglio con questa impresione. Non mi crede?”
“Mah… cioè, sì, certo, è ovvio…”
“No, non mi crede. Ma non l’avrei chiamata solo per questo, ci sono gli altri fatti, quelli concreti. Da almeno un mese ricevo delle telefonate, a tutte le ore, ma sempre quando sono da sola. Una voce maschile che sussurra. Io tiro su e lui dice soltanto una cosa”.
“E cosa?”
“Troia”.
Aveva abbassato gli occhi, sulla pantofola che oscillava, agganciata col bordo di stoffa alla punta estrema dell’alluce. Un lembo dell’accappatoio le era scivolato su un ginocchio, scoprendole la gamba fino alla caviglia e io mi ero sentito in imbarazzo a guardarla. Così piccola, con le spalle curve e quell’aria preoccupata mi faceva… tenerezza. Ecco, quando ci penso mi dico che deve essere stato quello il mio primo sentimento.
“Bene… cioè, male. E poi? cosa è successo?”
“Poi hanno tagliato le gomme all’auto del mio ragazzo, a casa sua, in garage, due giorni fa. E poi mi hanno bruciato la cassetta della posta”.
“Prego?”
“Lo ha visto anche la signora che abita davanti. Un tipo magro, non tanto alto, con un cappello e un soprabito scuro… ha versato dell’alcool nella mia cassetta della posta e poi gli ha dato fuoco”.
“Questo è strano”.
“Perché, il resto è normale?”
“No, ha ragione, no… È per questo che le consiglio un vero investigatore privato, anche se costa di più. Io sono stato cinque anni in polizia, è vero, ma ero nella Celere”.
“Lo so”.
Aveva continuato a fissare la pantofola, ma aveva socchiuso le labbra in un sorriso malizioso che mi aveva fatto capire che sapeva benissimo, chissà come, perché non ero più nella polizia. Avevo ammazzato un ragazzo allo stadio, durante una carica.
“È per questo che ho cercato proprio lei… perché voglio qualcuno che costi poco e che sia capace di difendermi”.
“Vada alla polizia, allora, quelli non costano niente. Perché non chiama il commissariato? le do il nome di un collega…”
“Quelli come me non ci vanno dalla polizia”.
È stato in quel momento che ha aperto l’accappatoio e io ho chiuso gli occhi, come facevo quando ero in caserma e i compagni uscivano dalle docce senza asciugamano. Quando li ho riaperti, lei, cioè lui era come prima, con le braccia strette davanti. Solo la pantofola era scivolata sul pavimento.
“Io vivo da sola, lavoro in casa due sere alla settimana e ho pochi clienti selezionati. Le posso dare i numeri di telefono se mi promette di essere discreto, ma non c’è nessuno che mi sembri l’uomo che mi… che mi sta… oh Dio! Ho paura… mi aiuterà?”
Mi aveva guardato ancora e lo aveva fatto con un’espressione così disperata, così indifesa, con quelle labbra strette e quegli occhi così grandi, da bambina spaventata, che non avevo potuto dire di no. Anche se non era una bambina. Così accettai, gli consigliai di chiudersi bene in casa e me ne andai, con l’anticipo in tasca e un vago senso di disagio per avergli guardato le gambe. Mi ricordo, anche questo sì, me lo ricordo bene, di aver pensato: ma che bella coppia. Un travestito e un poliziotto radiato per omicidio colposo. Ah sì, proprio una bella coppia…

Esclusi i clienti, che erano solo quattro e non corrispondevano alla descrizione della vicina di casa, escluso qualche giro losco di Mafia e papponi, che di solito non si comportano in modo così sofisticato, restavano gli innamorati respinti. Le telefonate, le gomme del fidanzato, quella strana cosa della posta… le visite notturne, se davvero c’erano state… mi sembrava tutto abbastanza chiaro. Una gelosia morbosa, da matto, un amore malato…
Rita, così si chiamava il mio cliente, di storie importanti finite male, male per loro, se ne ricordava tre. Un tipo che stava in città e faceva il rappresentante, un istruttore di tennis che se ne era andato col cuore a pezzi subito dopo e un altro, uno più giovane, uno studente un po’ strano. Di questo, che era stato il primo in ordine di tempo, il mio cliente me ne parlò solo mentre stavo per andare via, quasi esitando. Disse soltanto che era uno a cui piaceva starla a guardare. A guardare? sì, mentre leggeva, si truccava, mangiava o si vestiva. O dormiva, appunto.
Iniziai da quello. Ma all’indirizzo che avevo c’era una famiglia di meridionali, adesso, che non seppe dirmi nulla a parte farmi vedere il bollettino di una rata da pagare per il secondo anno di ingegneria, mai ritirata da nessuno. Col rappresentante non so dire se fui più fortunato o no, perché era morto tre settimane prima, in un incidente stradale. L’istruttore, invece, aveva lasciato alla posta l’inidirizzo nuovo e mi feci dare dal 12 il numero di telefono. Lo chiamai, ma aveva una segreteria con sotto il Bolero di Ravel che diceva che sarebbe tornato solo il giorno dopo. Andai dal fidanzato attuale, allora, ma anche da lui non ricavai molto. Faceva il pittore e mi ricevette nella mansarda che usava come studio. C’erano ritratti del mio cliente in tutte le posizioni, su tutte le pareti. Mi guardavano tutti.
“Sono contento che Rita abbia deciso di chiamare qualcuno… così si toglierà dalla testa certe fantasie. Per me sono quelle pillole che prende da quando ha avuto l’esaurimento nervoso che la fanno star male. Dà importanza ad un sacco di cose che non c’entrano niente, come le gomme della mia macchina”.
“Perché, non gliele hanno tagliate le gomme?”
“Bucate, non tagliate. E guardi che la macchina era in garage, con la saracinesca chiusa a chiave. Sarò passato su un chiodo… va bene, due chiodi, senza accorgermene. Quanto alla cassetta della posta, lei che va in giro spesso sa quanti teppisti ci siano, perfino nei quartieri alti. Hanno distrutto anche la mia, sa? a lei non è mai successo?”
“Mai, anche se sto in un quartieraccio”.
“Fortunato. Mica per la cassetta, perché con ventimila lire… per le lettere. Io e Rita ci scriviamo delle lettere bellissime, molto profonde. La sensibilità è una delle sue caratteristiche più marcate… la sensibilità, una sensualità morbida e avvolgente, una fragile, struggente dolcezza… e un’infedeltà naturale, quasi istintiva. Posso farle una domanda?”
Aveva le mani più lunghe e sottili che avessi mai visto e le teneva congiunte davanti al volto, succhiandosi la punta dei pollici. Era più vecchio del mio cliente, molto più vecchio. Capii cosa voleva chiedermi appena si morse un labbro, come per cercare le parole.
“No, può stare tranquillo. Io sono solo un investigatore privato pagato per risolvere un problema e basta. Non voglio altro. E poi… lui non è esattamente il mio genere”.
“Aspetti a dirlo. E non dica lui, per favore, dica lei. A parte un piccolo particolare la mia Rita è una donna… anzi, una bambina. Non crede?”
No, non lo credvo, ma non glielo dissi. Mi feci mostrare la porta del garage, sempre chiusa a chiave, senza segni di scasso e me ne andai convinto che avesse ragione, che fossero tutte coincidenze e che l’uomo della notte fosse solo un sogno dovuto ad un eccesso di ansiolitici. Feci anche un altro giro tra i vicini, perchè per sapere il momento giusto per telefonare o entrare in casa l’uomo doveva starsene appostato a lungo nei dintorni, ma nessuno aveva mai notato niente. Mi ripromisi di telefonare al mio cliente, il giorno dopo, per chiudere il caso, convincerlo a lasciarmi tutto l’anticipo e consigliargli un altro medico, perché non c’era nessuno che ce l’avesse con lei. Con lui, lui… e dovetti ripetermelo mentre guidavo, mentre mi tornavano in mente le curve dei suoi fianchi ritratti sulle tele, lui, lui, lui, finché non arrivai a casa.

Poi mi chiamò. Di notte, all’improvviso, a metà di un sogno indistinto che mi stava facendo sudare. Aveva la voce acuta come lo squillo che mi aveva svegliato e parlava in fretta, tra i singhiozzi, ansimando.
“Era qui! è stato qui, l’ho visto!”
“Visto? chi ha visto? di chi sta…”
“Quell’uomo! quell’uomo che mi guarda! è stato qui nella mia stanza! mi sono svegliata, ho aperto gli occhi e l’ho visto! oh Dio…”
“Un attimo, ferma un attimo… c’è ancora? mi risponda, c’è ancora?”
Non rispose, singhiozzava e basta e poi mise giù il telefono. Mi vestii in fretta, montai in macchina e corsi fino a casa sua. La porta era socchiusa, fermata da una catenella. Suonai, ma non venne nessuno, così mi attaccai allo stipite con le mani e staccai la catenella con una spallata contro la porta. Dentro era buio. Sentivo piangere in fondo al corridoio, dietro una porta chiusa.
“Apra! sono io, apra per favore!”
Aveva chiuso con tre mandate e quando spalancai la porta era già tornata al centro della stanza. Aveva una sottoveste leggera, quasi trasparente, che le sfiorava le ginocchia e le scopriva le spalle. Si stringeva con le braccia e tremava.
“Non c’è nessuno”.
“C’era. L’ho visto con i miei occhi. Era seduto lì”.
Indicò una poltrona contro il muro, in un angolo, con un gesto rapido che gli sollevò la sottoveste fino alle natiche, tanto che dovetti distogliere lo sguardo.
“E cosa ha fatto? le ha detto qualcosa?”
“Sì, no… non lo so. Ho urlato appena l’ho visto e poi lui non c’era più”.
“Quando l’ha messa la catena alla porta?”
“Quando la metto sempre… appena fa buio. E poi mi chiudo in camera”.
“Anche oggi?”
“No, sì… non mi ricordo”.
Stava per mettersi a piangere di nuovo. Mi strinsi nelle spalle e mi voltai, perché non capisse dalla mia espressione che non credevo ad una sola parola di quello che mi aveva detto. Ma appena mi avvicinai alla poltrona un brivido freddo mi irrigidì la schiena, scendendomi tra le spalle come una goccia d’acqua ghiacciata. Fu l’odore che mi colpì, un odore diverso, più secco di quello dolciastro che c’era nella stanza. L’odore di un altro. Poi vidi il cuscino, schiacciato in un angolo e in punta, come se qualcuno si fosse seduto sul bordo. Lo toccai con le dita e anche se sapevo che non era possibile mi sembrò di sentirne il calore.
“Cosa c’è? cosa ha sentito?”
Mi ero raddrizzato di scatto, con un movimento brusco, come se avessi preso la scossa. Rita mi guardò con un’espressione così spaventata, con quegli occhi così grandi, che non potei fare a meno di allungare una mano e toccarle una spalla. Mi scivolò tra le braccia, rapida, schiacciandosi contro di me. Tremava e quando alzò il mento mi accorsi che le tremavano anche le labbra, strette in quel broncio sottile, da bambina impaurita. Non mi ricordo se fui io a baciarla o lei a baciare me. Scivolammo sul letto e facemmo l’amore, non importa come.

“Cuore spezzato un cazzo… non è per dimenticare Rita che ho lasciato la città. Hanno cercato di ammazzarmi”.
Mi stavo piantando le unghie nel palmo della mano per resistere alla tentazione di spaccargli la faccia. Avevo lasciato un messaggio nella segreteria telefonica dell’istruttore di tennis, che mi aveva richiamato, dandomi appuntamento al bar del Circolo.
“Sì, certo, bella bocca, belle tette, brava… le scopate migliori della mia vita, ma tutto lì. E poi, Cristo, è un travestito… va bene la trasgressione, ma non sono mica un finocchio!”
“Neanch’io”.
“Bene, buon per lei… comunque, qualche mese fa a momenti mi ammazzo, in autostrada. Il meccanico dice che mi hanno svitato qualcosa sotto lo sterzo, io non ci credo ma dopo una settimana mi succede lo stesso con la macchina di servizio della concessionaria e allora mi cago addosso. Sa, col mio mestiere conosco tante donnine, mogli di gente importante… così per stare dalla parte del sicuro cambio città e mi cavo dai coglioni. Che dice, ho fatto bene?”
Non risposi. Presi nota sul taccuino e me ne andai. Dovetti piantarmi le unghie nel palmo fino a farmi molto male, mentre pagavo alla cassa e lui mi salutava dal tavolino, sotto l’ombrellone.
“Davvero pensava che fossi innamorato di Rita? figuriamoci… era lei che mi amava ma io… sì, bel corpo ma Cristo! e poi, mi creda… di bocca non valeva un cazzo”.
Avevo un amico alla stradale e andai da lui appena uscito dal Circolo. Mi fece vedere i rapporti degli incidenti del tennista e di quello del rappresentante, che si era ammazzato in un frontale con un camion. Erano identici. Un bullone svitato da sotto lo sterzo. L’uomo della notte esisteva.

Lo studente, invece, era scomparso senza lasciare traccia. Mi feci dare l’indirizzo dalla segreteria di facoltà ma a casa sua i genitori mi dissero che era qui, nel suo appartamento anche se era un pezzo che non si faceva sentire. Nel suo appartamento, lo sapevo perché c’ero già stato, viveva una coppia con due bambini. Il padrone di casa mi disse che lo aveva riaffittato dopo che aveva avuto la disdetta, per telefono, senza che nessuno fosse andato a riprendersi la caparra. Un tipo strano, disse il padrone di casa e me lo disse anche Rita, mentre la tenevo tra le braccia, sul divano, a casa sua.
“Non l’ho mai capito, Alessandro. Era pieno di fissazioni, sempre ansioso… o depresso. Prendeva un sacco di pillole, per dormire, per mangiare, per studiare… però non studiava mai. Stava qui tutto il giorno e mi guardava, seduto a tavola, col mento su una mano. Certe volte si appoggiava alla porta del bagno, mentre mi truccavo e lo vedevo riflesso nello specchio, immobile… ma soprattutto gli piaceva guardarmi dormire. Mi svegliavo la notte e lui era lì, sollevato su un gomito, appoggiato al cuscino… ci credi? in tanti mesi che abbiamo dormito insieme lui non mi ha mai toccata. Mi teneva tra le braccia e mi accarezzava i capelli finché non mi addormentavo, ma non abbiamo mai… davvero. Piano, mi fai male…”
La stavo stringendo, sempre più forte, senza accorgermene. C’era qualcosa nel tono della sua voce, che mi irritava, tendendomi i nervi e i muscoli… qualcosa di morbido e languido, che le aveva velato gli occhi mentre parlava di lui, dello studente. Qualcosa di cui ero geloso.
“Perché lo hai lasciato?”
“Non lo so. Non lo sopportavo più… non mi piaceva come mi guardava quando tornavo a casa tardi la notte. Mi faceva sentire in colpa. E poi era diventato ossessivo, voleva che smettessi di lavorare, non accettava più quello che… quello che sono. Ho pianto per una settimana, quando l’ho lasciato… sono stata io a mandarlo via e ho pianto, non è stupido?”
“No”.
“A volte mi manca. A volte, quando ci penso, Alessandro mi manca. Mi manca molto. Però voglio bene al mio pittore, è intelligente, premuroso, affascinante… un po’ morboso, forse…”
“Morboso? il pittore?”
“Sì… cE?erte volte mi fa quasi paura. Lo sai che gli piace legarmi? ahi… mi stai stringendo di nuovo… vuoi farmi male anche tu?”
“No, io no…”
Aprii le braccia e scivolai indietro, sul divano, schiacciandomi contro il bracciolo. Rita sorrise e per la prima volta notai una piccola ruga all’angolo della bocca, sottile e maliziosa, che feci fatica a non baciare, di slancio.
“Sì, lo so. Anche con te sto bene. Mi sento… mi sento protetta. Davvero”.
Si contrasse, stringendosi a me, con un sospiro, poi si rilassò e sentii il suo corpo, dolce e caldo, scivolare sul mio. Fu soltanto un sussurro quello che mi soffiò nell’orecchio, prima di mordermi il lobo e farmi rabbrividire di desiderio e di rabbia.
“Ma non amerò più nessuno come ho amato Alessandro… o come lui amava me”.

Mi feci dare l’elenco dei corsi a cui si era iscritto. La maggior parte erano corsi ordinari, frequentati da decine di persone, ma ce n’era uno speciale, le cui lezioni si tenevano nello studio del professore. Ci andai quella mattina stessa. Gli studenti erano sei. Non feci fatica a trovare chi lo conosceva meglio.
“Posso confermarglielo, Alessandro era il tipo più strano che avessi mai conosciuto. Chissà, forse stava proprio lì il suo fascino… io un po’ mi ero innamorata, sa?”
Non avevo intenzione di ascoltare un’altra volta tutti i pregi dello studente, ma la ragazza, con i gomiti appoggiati al tavolino del bar e il mento sulle mani, fissava un punto lontano, con gli occhi sognanti e non ebbi il coraggio di interromperla.
“Era così… così dolce. Uno dei ragazzi più buoni del mondo. Voleva andare a fare l’ingegnere nel Mato Grosso, dopo la laurea, gratis”.
“Non lo ha mai visto… non so, violento?”
“Alessandro? vuole scherzare. Non avrebbe fatto male ad una mosca. Sembrava un bambino certe volte, così indifeso… l’ho visto piangere una volta che mi sono incazzata e gli ho gridato addosso, povero Alessandro. Sì, davvero, un po’ mi ero innamorata. Ma c’era quell’altra”.
“L’altra?”
“Quella ragazza… bella, bellissima. Così diceva lui, almeno, perché io non l’ho mai vista. Però che l’amava si capiva benissimo, e allora mi sono messa il cuore in pace… dopo essere stata male per un po’. Bè… adesso lui non si è più fatto vedere all’Università, così… sa come si dice, occhio non vede…”
“E non sa dove potrebbe essere? non ha un numero di telefono, un recapito, l’indirizzo di un amico…”
“No. Non l’ho più cercato, io… però c’è una ragazza che l’ha visto, una volta, sulla veranda di uno di quei capanni con le reti che stanno sui canali, dalle parti del mare”.
“Dove?
“Non lo so, non gliel’ho chiesto. Se vuole le do il numero della mia amica”.
Lo volevo. Era un numero di fuori città, dove era tornata per delle supplenze. Aveva un cognome così complicato, l’amica, che dovette scrivermelo la ragazza, dopo avermelo ripetuto tre volte. Sorrise mentre scriveva sul mio taccuino, sopra i numeri del prefisso.
“Non è curioso? è proprio così che è cominciata con Alessandro. Non riusciva a scrivere un nome, a lezione e l’ho fatto io. Pensi che in tre mesi di corso non si era accorto nessuno del suo problema…”
“Che problema?”
“Quel disturbo… come si chiama? quello per cui non puoi scrivere. Alessandro aveva la calligrafia di un bambino di cinque anni… illeggibile, orrenda. Era una cosa di cui si vergognava moltissimo. Sapesse quanto ci ho messo per fargli accettare le fotocopie dei miei appunti…”.
Appena fuori dal bar mi precipitai nella prima cabina che vidi e feci il numero di Rita. La voce del pittore smorzò tutto il mio entusiasmo.
“Pronto? chi parla?”
Avrei voluto sbattere giù, stordito da una rabbia sorda che mi ronzava nelle orecchie. Strinsi i denti, invece e battei un colpo secco sul plexiglas azzurrato della cabina, col pugno a martello.
“Cerco la signorina Rita. Sono…”
“Oh sì, l’investigatore, certo… Rita non può venire al telefono in questo momento. Cosa voleva dirle?”
“Niente… cioè, no… io credo, anzi, sono sicuro… insomma, so chi è il bastardo che la tormenta. È quello studente, come si chiama…”
“Alessandro”.
“Sì, Alessandro. È pazzo, è scomparso, si intende di meccanica tanto da sabotare una macchina e non riesce a scrivere! ecco perché le ha bruciato la cassetta della posta, perché è geloso e odia chi sa scrivere!”
“Non ho capito una parola di quello che ha detto, ma non importa. L’investigatore è lei, sa cosa fare. L’aspettiamo per le sette, questa sera”.
“Per le sette?”
“Io vado a Milano. Starò via due giorni. Rita non vuole essere lasciata sola questa notte, dopo l’ultima telefonata… le ha detto della telefonata, vero?”
Me lo aveva detto. Troia, come al solito e poi ti ammazzerò e nient’altro.
“Io ero contrario, perché resto ancora dell’idea che siano tutte sciocchezze, ma lei ha insistito e quindi voglio che venga qui, questa notte e che ci resti. Senta un po’… si ricorda la domanda che volevo farle l’altro giorno? e lei mi disse che Rita non era il suo… genere? vorrei rifargliela, quella domanda. Che mi dice, investigatore?”
Non gli dissi niente. Mormorai soltanto “vengo alle sette” e riattaccai.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Non chiudere a chiave la porta. Ci sono io qui fuori”.
“No, va bene…”

Rita abbassò gli occhi, appoggiata allo stipite, poi mi abbracciò di scatto, sollevandosi sulle punte e mi baciò sulla bocca. Chiusi gli occhi mentre sentivo il calore delle sue braccia attorno al collo e il suo profumo dolce, ma fu solo un attimo, perché subito si staccò e scomparve dietro alla porta. Restai ad ascoltare lo schiocco leggero dei suoi piedi nudi sul pavimento e il cigolio rapido delle molle del letto, poi sospirai, presi il telecomando e accesi la televisione. Avevo sistemato un tavolo al centro della stanza, con una sedia davanti, la più rigida e scomoda che avevo trovato. Da lì potevo controllare la porta d’ingresso dell’appartamento, la finestra e la porta della camera di Rita. Non ero dentro, con lei, seduto sulla poltrona come lo studente per la stessa ragione per cui avevo preferito che chiudesse la porta: sapevo benissimo come sarebbe finita se l’avessi vista a letto e non volevo correre il rischio di farmi sorprendere. Del resto, le avevo sbarrato la vetrata che dava sul terrazzo, le avevo messo uno di quegli spray anti aggressione sul comodino e nel silenzio totale dell’appartamento riuscivo a sentire anche le molle del letto, ogni volta che si muoveva. A volte mi sembrava di sentire persino il fruscio delle sue gambe sul lenzuolo, ma forse era solo la mia immaginazione…
Alla televisione avevo tolto l’audio. La tenevo accesa solo per fissare qualcosa e non rimanere completamente al buio, rischiando un colpo di sonno. Avevo preparato un thermos di caffè, come quando ero di servizio notturno ai maxiprocessi e me ne versai un po’, nella tazza grande che tenevo sul tavolo, davanti a me, vicino al coltello a serramanico ed a una sbarra di ferro che avevo trovato a casa, in garage. Non avevo una pistola, non mi serviva. Non era con quella che avevo già ammazzato un uomo, tempo fa.
Rita si mosse, nella stanza e io mi irrigidii contro lo schienale di legno della sedia, ascoltando attento il sospiro metallico delle molle del letto, uno solo, breve, finché non tornò il silenzio. Provai a concentrarmi, teso e immobile, per sentirla respirare e piano piano mi convinsi che quel ronzio che sentivo nella penombra rischiarata dai bagliori intermittenti della televisione accesa era il suo respiro, lento, rilassato e regolare. Avevo voglia di entrare in quella stanza tiepida di sonno e di sedermi anch’io sulla poltrona, soltanto per guardarla dormire e mentre stringevo i denti per la rabbia pensai che odiavo quel bastardo di studente che lo aveva fatto tante volte e che adesso me lo impediva. Che fosse lui, l’uomo della notte, ormai era sicuro, ma c’erano alcune cose che mi preoccupavano e mi spaventavano quasi. Questo tizio invisibile che riesce a sapere quando Rita è sola e quando riceve delle lettere… che si infila dappertutto, attraverso le finestre chiuse e le porte sbarrate, come un fantasma… Toccai la sbarra di ferro con la punta delle dita e il contatto freddo mi fece rabbrividire. Mi tornò in mente quel giorno sugli spalti dello stadio, il mio sangue che mi colava su un occhio per la sassata e quello del ragazzo che mi aveva schizzato tutta la faccia…
Poi sentii l’urlo. Un grido acuto e corto, la voce di Rita, ma c’era anche un ringhio basso e roco, come quello di un animale, coperto dal cigolio isterico delle molle e dalla vetrata che sbatteva contro al muro. Afferrai la spranga e scattai contro la porta, aprendola con un pugno secco sulla maniglia, ma appena dentro mi bloccai di colpo. L’odore pungente e acido dello spray paralizzante che riempiva tutta la stanza mi prese alla gola, facendomi lacrimare gli occhi e dovetti aggrapparmi al muro per non cadere in ginocchio. Non vedevo più niente, ma sentivo un alito d’aria fresca sulla faccia che mi bruciava e mi lanciai contro quello, sbattendo con la spalla nell’anta della porta a vetri che dava sul terrazzo. Mi ritrovai contro la balaustra di marmo, mezzo fuori, ad aspirare l’ossigeno con la bocca spalancata, quando il primo colpo mi prese sull’orecchio, troncandomi il respiro in un singhiozzo roco. Il secondo mi prese sul naso, con uno schiocco secco che mi rimbalzò fin dentro al cervello e rimase a vibrarmi sui denti per una frazione di secondo, ma al terzo ero riuscito ad alzare le braccia e ad afferrare il bastone prima che mi colpisse ancora. Vidi Rita tra le lacrime che mi velavano gli occhi un attimo prima di sferrare un pugno in avanti, alla cieca, con tutta la forza che avevo.
“Ferma, ferma! sono io, Rita, smettila! sono io!”
Rita lasciò la scopa e si gettò su di me con tanto slancio che quasi persi l’equilibrio. Mi abbracciò, stringendosi contro il mio petto. La sentii tremare, forte, mentre singhiozzava. Chiusi le mie braccia su di lei e avrei voluto tenerla stretta finché non avesse smesso ma lanciai un’occhiata oltre il terrazzo e vidi qualcosa sull’erba, appena un metro più sotto. Era un cappello.
“Resta qui. Io torno subito”.
“No, no! non lasciarmi sola!”
“È finito, non c’è più pericolo… è finito tutto e adesso vado a prenderlo”.
Avevo perso la sbarra ma non ne avevo bisogno. Scavalcai la balaustra e saltai di sotto, accanto al cappello sull’erba. Il giardino era piccolo, circondato da un muretto abbastanza alto. La luna quasi piena illuminava il prato, coperto solo in un angolo da una macchia folta di alloro, piantata in mezzo ad una corona di terra fresca. Non poteva aver fatto in tempo a girare attorno alla casa per scappare dal cancello che, riuscivo a vederlo anche da lì, era ancora chiuso come l’avevo lasciato.
Socchiusi gli occhi, fissando l’ombra frastagliata della macchia d’alloro. Era lì dentro, il bastardo. Potevo immaginarlo che mi fissava, in mezzo alle foglie e mi vedeva ringhiare tra i denti, con i pugni stretti, pronto ad ammazzarlo.
“Non mi scappi più, maledetto, vieni fuori! vieni fuori o vengo a prenderti io!”
Ma al momento di fare un passo in avanti notai qualcosa che mi fece paura. Non c’erano impronte nella terra fresca, appena smossa dalla vanga, che circondava la macchia di alloro. E poi… c’era un intero flacone di Mace nella stanza e gran parte di quello Rita doveva averglielo spruzzato nella faccia, ma invece di strangolarsi, come era successo a me, questo bastardo era saltato giù dal terrazzo. E prima aveva aperto senza un rumore la vetrata che io stesso avevo sbarrato. L’idea del fantasma, forte e irreale, tornò a farmi rabbrividire…
Il vento che soffiò improvviso per qualche secondo fece fremere le foglie, scuotendo le punte dei rami. Mi parve che un ramo continuasse a muoversi anche dopo che l’aria era tornata immobile, poi un’altro più sopra e uno più alto ancora. Scattai come una molla, girando attorno alla macchia, senza badare a coprirmi ma non ce n’era bisogno. Dietro l’alloro il muro era sbeccato, in cima e c’erano tre rami robusti, uno sopra l’altro, come una scala.
Figlio di puttana.
“Questo è il saldo, detratto l’anticipo e questo dovrebbe bastare a coprire le spese. Rita la ringrazia e la saluta”.
Il pittore aveva in mano una busta gialla, che mi teneva puntata addosso, come una pistola. Io rimasi con le braccia incrociate sul petto, senza prenderla.
“Perché?”
“Perché riteniamo di non aver più bisogno di lei. Perché non serve a niente. Perché ieri sera a momenti qualcuno faceva del male a Rita”.
Abbassai lo sguardo, imbarazzato e strinsi i denti per la rabbia. Era vero.
“L’ho quasi preso. Quasi. Una ragazza mi ha dato l’indirizzo di un capanno da pesca e sono sicuro che si nasconde là il bastardo… o che ha lasciato qualche traccia che…”
“E intanto la mia Rita sta qui a fare da bersaglio”.
La sua Rita…
“No, investigatore… ammetto di essermi sbagliato, non erano coincidenze e c’era davvero qualcuno, ma non è di una guardia del corpo che abbiamo bisogno. Qui non si tratta di sorvegliare o di proteggere… qui c’è una cosa sola da fare. Portarla via”.
“Portarla via?”
Il pittore mi guardò negli occhi, arrotolando la busta attorno alle sue dita sottili. Socchiuse le palpebre perché si era accorto, dall’espressione dei mei occhi, che io mi ero accorto di quella dei suoi. La mia era paura. La sua odio. Non mi chiese ancora se avevo cambiato idea su Rita. Mi infilò la busta dentro il taschino della giacca, arrotolata stretta come un sigaro.
“Sono anni che non vado in vacanza e questa mi sembra proprio l’occasione giusta. Non so ancora dove porterò la mia Rita, ma le assicuro che staremo via tanto che quando torneremo questo maniaco si sarà dimenticato di tutte le sue fissazioni. Forse anche lei, investigatore, si sarà dimenticato di Rita”.
“Dov’è adesso?”
“Non c’è. Dorme e non può essere distrurbata”.
“È daccordo con lei? lo vuole anche Rita, questo?”
“Quasi. Ma riuscirò a convincerla. Questa sarà l’occasione giusta per convincerla di tante cose… lasciare quel maledetto lavoro che fa, smetterla con certe… distrazioni, una volta per tutte. E arrivato il momento di fare le cose giuste e io so quali sonole cose giuste per la mia Rita. Le manderemo una cartolina, investigatore. Addio”.
E di nuovo quella luce, tra le palpebre, fredda e cattiva. Come la mia.

Il capanno da pesca era proprio in fondo al canale, sulla punta dell’argine, quasi nascosto dal canneto. Lasciai la macchina sulla strada e corsi lungo la barriera, finché non fui abbastanza vicino per salire sulla sponda. Cominciò a piovere, una pioggia sottile, che sapeva di sale ad ogni folata di vento.
La porta era chiusa e le finestre sbarrate, tranne quella sul canale, da cui uscivano le braccia dell’argano che sollevavano la rete. C’era odore di marcio da quella parte, un odore forte e dolciastro, quasi insopportabile, che aveva richiamato nugoli di zanzare in attesa sul pelo dell’acqua putrida. Mi passai una mano sugli occhi, per asciugare la pioggia salata che mi bagnava il viso e mi sporsi per guardare. C’era qualcuno, dentro, un’ombra immobile, in cui riconoscevo la sagoma di un volto. Era fuori dal mio angolo visuale, ma dall’ombra sembrava fissasse proprio la finestra e mi ritirai di scatto, con uno scricchiolio di legno. Trattenni il fiato, mentre il vento fischiava tra le canne, poi tornai a sporgermi per guardare. L’ombra si era mossa, aveva girato di lato, tanto che la curva del naso era scomparsa e non sapevo se guardasse verso di me o dall’altra parte. Tornai indietro facendo più piano possibile. Mi fermai davanti alla porta. Aspettai.
Se si era accorto di me, forse quel bastardo sarebbe uscito e l’avrei preso. Ma forse era lui che mi aspettava. Magari aveva una pistola. Oppure non c’era neanche, era solo un’ombra, un fantasma invisibile… Presi un sasso e lo strinsi forte in mano. Non avevo paura. Uomo o fantasma che fosse l’avrei portato a Rita, vivo o morto e a quel suo pittore. Che avrebbe dovuto lasciarla. Vivo o morto anche lui.
Lanciai un’occhiata ai cardini della porta e alla consistenza del legno, poi contai fino a tre e scattai in avanti. Cedette alla prima spallata, con uno schianto umido e improvviso che mi fece cadere sulla soglia, dove rimasi immobile, pietrificato, col mio sasso in mano.
Lo studente dondolava appeso ad una trave, con le punte delle scarpe a pochi centimetri dal pavimento, la testa inclinata su una spalla dal nodo storto della corda. Girava su se stesso ad ogni folata di vento che entrava dalla finestra e lo fece anche allora, voltandomi le spalle. Ero sicuro che fosse lui, anche se del volto, coperto di mosche e di zanzare, non rimaneva quasi più nulla e i vestiti gli pendevano addosso come un sacco vuoto. Era morto da tempo, tanto tempo. Sicuramente più di un mese.
Questa volta la porta del garage era aperta. Entrai da lì e salii di corsa le scale appena vidi che l’auto del pittore c’era ancora. Non mi preoccupai del rumore dei miei passi sui gradini di legno, perché di lui, adesso che non era più un fantasma sconosciuto non avevo più paura. Mentre ero steso sulla soglia del capanno, rannicchiato su me stesso come un feto e mi dicevo che non era quello il momento di abbandonarsi ai conati e vomitare, avevo pensato che se non era lo studente l’uomo della notte, allora riuscivo a capire come avesse fatto ad entrare in un garage chiuso dall’interno e a sapere degli spostamenti di Rita e delle lettere… quel bastardo di un pittore col suo sguardo carico d’odio… e mentre grattavo con le unghie il legno fradicio della porta per alzarmi pensavo che dovevo fare presto, correre in macchina e fare presto, correre da Rita prima che la portasse via o le facesse del male, presto, presto… e lo gridai, forte e continuai a ripeterlo mentre uscivo dal capanno a quattro zampe, come un cane e poi correvo lungo l’argine, sotto la pioggia salata che mi sferzava la faccia…
“Rita! Rita, dove sei!”
Si sentiva parlare, in mansarda. Poco più di un sussurro, quasi un singhiozzo, che mi fece rabbrividire violentemente.
“Non toccarla! ti ammazzo se la tocchi, bastardo! giuro che ti ammazzo!”
Il pittore uscì dalla stanza con gli occhi sbarrati e si fermò sulla soglia, un paio di gradini sopra di me. Io alzai i pugni, pronto a colpirlo, ma lui si appoggiò allo stipite, barcollando. Dalle dita sottili con cui si stringeva la gola zampillò uno schizzo denso di sangue, che gli scese sulla camicia mentre scivolava a terra, di lato. Dietro, riflessa nel vetro di un quadro che a ritraeva nuda con le mani a coppa chiuse davanti, c’era Rita, immobile, con lo sguardo spento. Portava un cappello e un soprabito scuro. Lasciò cadere il rasoio insanguinato sul pavimento quando la presi per le spalle e mi sorrise, con quella piccola ruga che le veniva all’angolo della bocca, tutte le volte che tendeva le labbra.
Io non sono uno psicologo, sono un investigatore privato che si occupa di recupero crediti e prima ero solo un celerino col manganello facile. Non so cosa fosse a spingere Rita ad ammazzare tutte le persone che credeva di amare… forse il senso di colpa per quello studente che si era impiccato per lei, un senso di colpa talmente insopportabile da far uccidere invece che uccidersi da sola. O forse la nostalgia di un amore così forte da far rivivere il passato sostituendosi a quel ragazzo che riusciva ad amarla anche soltanto guardandola dormire… un amore malato, ma così grande che anche adesso, quando ci penso, devo stringere i denti per non farmi sopraffare dalla rabbia e dalla gelosia che mi ribolle nel sangue.
Comunque… mi ricordo che pioveva ancora mentre aspettavo davanti al semaforo rosso, all’angolo del commissariato. Rita si era addormentata, rannicchiata contro il sedile di dietro, i pugni stretti sul petto, come una bambina. Cercavo di pensare a quello che era, un’assassina… un assassino, ma per quanto mi sforzassi non ci riuscivo. Fui contento che avesse un nome, Rita, che non poteva essere trasformato in niente di diverso da quello che lei era adesso. Mentre fissavo le gocce di pioggia che scendevano sul vetro posteriore pensavo che c’erano solo due alternative. Lasciarla andare, col rischio che uccidesse ancora o portarla alla polizia e farla smettere. Lasciarla andare o farla smettere. Riportarla a casa o mandarla in prigione. Non per gli omicidi che aveva commesso… anch’io avevo ucciso, per rabbia e non per difesa e non ero andato in galera per il buon none del corpo. No, era per quello che avrebbe potuto fare quando…
Ecco, ricordo che è stato in quel momento che ho appoggiato la fronte al sedile e ho sospirato così profondamente da sentire male. Perché mentre pensavo che Rita aveva ucciso tutte le persone che aveva amato dopo lo studente, come il rappresentante, il tennista e il pittore, mi venne in mente che in tutto il tempo che ero stato con lei, distratto, abbandonato e anche indifeso, ecco, a me non aveva mai fatto niente. Proprio niente. Poi scattò il verde e partii.
Da quel giorno gli omicidi sono cessati. Non so se la decisione che ho preso sia quella giusta, ma adesso Rita è tranquilla e quando la incontro, ogni tanto, parla e ride e mi racconta quello che le succede, il lavoro, le nuove relazioni, i problemi… e una volta, ma una volta soltanto, abbiamo anche fatto l’amore. Perché non l’ho portata in prigione, Rita, non potevo… l’ho riportata a casa.
Tutte le notti, quando dorme sola, scavalco il muretto del giardino, salgo sul terrazzo e con un cacciavite apro la vetrata. Poi mi siedo sulla poltrona e resto a guardarla. Lei continua a dormire, non apre mai gli occhi e non si muove, ma io lo so che mi sente.
Qualche volta, quando sono sicuro di non svegliarla, mi sporgo in avanti e la bacio sulle labbra.

Exit mobile version