Massimiliano Vitelli, LET historical Team correspondent
Andreas Baader, la R.A.F. e le solite “versioni ufficiali”
Lo trovarono. Senza vita. O almeno così dissero. I media, sazi di una comoda verità ufficiale l’accettarono senza porsi troppe domande: suicidio. Si spegnevano così, il 18 ottobre 1977, le luci nella sua cella e sulla sua vita. Andreas Baader, terrorista e leader della R.A.F. (Rote Armee Fraktion) era morto. La storia della sua vita, da ladro d’auto a teorico (e pratico) rivoluzionario dell’estrema sinistra, è stata un susseguirsi di eccessi. Una vita che nei suoi brevi ma intensi 34 anni, ha fatto sì che il nome di Andreas Baader rimanga ancora oggi tra quelli di maggior riferimento nell’ambito dell’argomento “terrorismo”.
La Meinhof, editorialista del quotidiano Konkret, si avvicina proprio per la sua professione a Baader ed alla Ensslin, come inviata al processo. Già famosa per i suoi pezzi sempre polemici (bersaglio preferito il leader bavarese della C.S.U. Franz Joseph Strauss) riesce grazie ai suoi articoli ficcanti a far diventare ogni udienza un caso nazionale. La costante frequentazione con i due imputati la spinge presto ad abbandonare la sua attività legale di giornalista per passare all’azione violenta e ad entrare nel regime di clandestinità. Il suo diventa presto un ruolo talmente di rilievo che la R.A.F. viene spesso ricordata anche con il nome di Banda Baader-Meinhof.
Week-end in hotels a 5 stelle, droghe, auto sportive, tutto sempre e rigorosamente sotto falso nome e nella clandestinità. Le parole d’ordine sono sfarzo e lusso. I loro comportamenti sono talmente esagerati che durante un campus di addestramento in Giordania vengono espulsi e rispediti a casa.
Il 1 giugno 1972 Andreas e due suoi compagni, Jan-Carl Raspe e Holger Meins sono arrestati al termine di una estenuante sparatoria per le strade di Francoforte, ancora una volta teatro delle azioni della Rote Armee Fraktion. Successivamente vengono prese anche la Ensslin e la Meinhof. Si apre così il più grande processo della storia della Germania e, di riflesso, emette in questi giorni i primi vagiti la pianificazione del sequestro Schleyer.
Infatti, i compagni della R.A.F., per costringere le autorità di Monaco a rilasciare i loro leaders, si giocano la carta “rapimento”. Il 5 settembre 1977, con un’imboscata lungo la Vincenz-Statz Strasse, un commando costringe l’autista dell’allora presidente degli industriali tedeschi (ed ex ufficiale delle SS) Hanns Martin Schleyer a bloccare la propria auto. L’azione è fulminea: mentre un uomo preleva Schleyer gli altri quattro che compongono la spedizione uccidono, sparandogli, l’autista ed i tre agenti della scorta.
Quattro suicidi in poco meno di un anno in due carceri di massima sicurezza. Le versioni ufficiali parlano di pistole (nei casi di Baader e di Raspe) e di corde usate per impiccarsi (Ensllin e Meinhof).
Durante le indagini la commissione internazionale d’inchiesta però, composta da avvocati, medici, giornalisti ed intellettuali di mezza Europa, giunse alla conclusione che la Meinhof non avrebbe mai potuto impiccarsi da sola e che fu appesa già cadavere. Da allora la verità su come terminarono la loro vita i leaders della R.A.F. continua ad essere avvolta nel mistero.