Visioni e Metalinguaggi

Croce e delizia di un tormento: i Cinque Atti di Petra Von Kant

Francesca Fodale

Petra Von KantPuò la passione trasformarsi in una gabbia d’isolamento? Possono i legami strappare la fibra dell’essere e sfilacciarla nella docilità delle sue imperfezioni? Può l’individuo confondere sentimento e possesso e ritrovarsi stremato al termine della notte in cui tale confusione lo sprofonda? Fassbinder risponde di sì. In “Le lacrime amare di Petra Von Kant” l’amore è proiettato nella precipitosa involuzione dell’indifferenza e del rifiuto. Le promesse infrante dagli amanti – o meglio dalle amanti – in interno borghese. Il triangolo amoroso tra Petra (Margit Carstensen), stilista di successo, Karin (Hanna Schygulla), sua smaliziata protetta e Marlene (Irm Hermann), assistente di Petra, ci precipita nei baratri emotivi della passione non corrisposta, in un vespaio di masochistiche aspettative deluse e di reazioni ben oltre il limite della nevrosi.

Se siamo abituati – o mal abituati da un’attitudine romantica – a dipingerci l’amore non corrisposto come lo strazio di un cuore immacolato e infranto, Fassbinder ci ripropone tutta la feroce ambiguità di un conflitto relazionale malato di parossismo. Petra, l’eroina di questo melodramma, è una donna convinta di aver superato l’urgenza della ricerca dell’altro. Nella prima scena del film si offre nell’altera vanagloria di chi ha circumnavigato ogni frastagliatura di un rapporto.
Petra Von KantNella conversazione con la baronessa Sidonie ci abbaglia con la propria emancipazione emotiva. Monumentalizza la libertà quale presupposto d’ogni rapporto sentimentale, schernisce l’ipocrita modestia proposta dall’amica come rimedio antico alle crisi matrimoniali – e all’instabilità con cui queste travolgono l’individuo – e finisce per vaticinare la propria condanna: se l’amore ha come ambizioso obiettivo la felicità, l’assenza d’amore è una nausea che tortura lo spirito nella consumazione di una tragedia piccola piccola, la fine di un rapporto.

Ma non siamo sulle pagine di un romanzo, Petra Von Kant è un dolore tridimensionale e Fassbinder sfrutta tutto il ricco immaginifico a sua disposizione per avvisarci del precipizio che si sta avvicinando. La protagonista è un esemplare di razza della borghesia illuminata: intelligente, istruita, disinibita, di successo. Disquisisce con disinvoltura d’argomenti assoluti: amore e morte, giovinezza e maturità, felicità e dolore, realizzazione dell’io, e lo fa con una parsimonia linguistica priva d’orpelli da salotto bohemien. Pura, sintetica, cristallina estetica del sé. Eppure, proprio nella formulazione dei suoi paradigmi, è intenta nell’applicazione del maquillage. Parrucca, ciglia finte, cerone, rossetto: mentre compone la sua stessa maschera Petra formula teorie sulla genuinità di un sentimento.
Petra Von KantFenomenologia di un equivoco? Nella misuratissima economia dei gesti che caratterizza i movimenti in scena di tutti i partecipanti all’azione, la nostra eroina si smaschera: il presunto distacco non è autentico, come non lo sono le sue sembianze. La realtà che si racconta e la passionalità che la travolge non si alimentano della stessa inattaccabile saggezza. Ed ecco che entra in scena lei, nuda veritas, la vera modernità relazionale di questo triangolo amoroso: Karin. Onesta nella propria superficialità, genuinamente crudele, feroce, vera.

Hanna Shygulla interpreta magistralmente questa giovane donna che baratta la passione di Petra con il proprio corpo. “Ti amo a modo mio”, le farà dire Fassbinder: summa teologica di un rapporto mai nato. La bellezza di Karin è la valuta in cui si vende, le rinfaccia l’amante. Petra Von KantSbagliato: la forza di Karin s’articola nella sua disarmante autosufficienza. Karin non ha alcuna paura di perdere, nessun pudore nello smentirsi. Non si spoglia di un alone di purezza e beltà d’animo che sa di non possedere e riempie la scena con l’offerta del suo nulla affettivo. Karin vive, con tutte le meschinità del caso. Petra si racconta, sullo sfondo di una passione narcisistica. Karin si fa beffa della moralità borghese e della dialettica tra inganno e realtà in cui Petra s’impiglia celebrando il dolore nella liturgia romantica del totale abbandono: “Io non sono pazza, sono solo innamorata.”. Il futuro è di chi sopravvive, ci avvisa Fassbinder, facendo uscire Karin di scena: da lì in poi è tutto un crollare di carte.

Petra Von KantPetra si spoglia dell’infrastruttura delle sue certezze, barcolla, crolla, tocca il baratro della disperazione e infine inanella una serie di violente invettive contro madre, figlia e amica, tutte colpevoli d’ipocrisia e falsità, tutte delle mantenute. Si riscopre finalmente moderna: lei, una donna che si è conquistata ciò che possiede col proprio lavoro, che ha rifiutato la mascolinità ostentata dagli “ometti” per innamorarsi della pura bellezza del suo stesso sesso, può decidere di distruggere tutto. Passa per questo tracollo la salvifica consapevolezza che anche la passione che l’infiamma è una sua costruzione e, come tale, può essere annientata. Fine di uno strazio ma Fassbinder non è soddisfatto: per rinascere dalle proprie ceneri Petra deve bruciare completamente e perdere anche Marlene. Presenza muta per tutta la durata del film, difficilmente distinguibile, se non per qualche sguardo, dai manichini che passa la giornata a vestire nel suo angolo di studio, Marlene è il doppio dell’amore folle che Petra prova per Karin, privato tuttavia della cifra borghese: la smania di possesso dell’oggetto desiderato.

Petra Von KantMarlene assiste, sopporta, si lascia maltrattare senza reagire, se non palesando la propria languida sofferenza nell’osservare la donna che ama attraverso un vetro. Fino all’ultima scena in cui Petra, superata la crisi d’isteria, le propone d’entrare in un contatto più intimo e di raccontarle la propria storia. Per tutta risposta Marlene riempie una valigia, raccoglie una bambola, emblema della reificazione dell’oggetto amoroso, e lascia la scena. Poi buio e una canzone dei Platters a fare compagnia a Petra rimasta sola. Nel consolidato rapporto di sopraffazione che Petra ha costruito con la propria assistente e con il suo universo emotivo, anche l’avvicinamento può perturbare l’equilibrio delle forze in gioco e determinare il crollo dell’intera struttura.

Quesito: in che modo il regista dirige la visione di quest’appassionato e struggente triangolo omosessuale? Risposte: adattamento dal soggetto teatrale, inquadratura, drammaturgia del colore. Il rapporto con il palco: Petra von Kant nasce come piece teatrale e porta i segni delle proprie radici nella struttura architettonica dell’interno in cui la vicenda si svolge. E’ opinione diffusa che l’assenza affermi se stessa più della ridondanza: ciò che manca a Petra è una via di fuga. Le cinque scene che compongono il lungometraggio (i corrispondenti cinque atti del soggetto teatrale) la ritraggono intenta a percorrere l’angusto spazio che va dal proprio letto allo studio adiacente, in un open space che è la gabbia dorata in cui la nostra fenice dispiega le ali. Non esce mai dall’azione, è onnipresente nello sfarzo della sua mise, mentre le altre protagoniste esercitano il diritto, scenografico e morale, d’entrare e uscire di scena, suggerendo uno spazio esterno all’inquadratura.

Petra Von KantIl loft della sofisticata Petra è un proscenio fisso, il letto l’altare della sua passione sacrificale. Secondo punto: lo sguardo che osserva. Cosa osserva? Un quadro, una costruzione perfetta nel dinamismo geometrico che intreccia i corpi al fondale. I tre i punti d’osservazione, frontale e laterali destro e sinistro – esattamente gli stessi d’un palco teatrale che si offre allo sguardo del pubblico – incorniciano le silhouettes nette delle attrici in una dimensione classica dello spazio. Nei dialoghi puliti e minimalisti l’azione fisica non è mai esasperata, non c’è dispersione d’energia meccanica e le posture sono stabili, plastiche ma inflessibili. Nei momenti in cui il movimento si fa più irrequieto, la cinepresa si sposta a terra: se le mani sono impegnate nella calibratura d’ogni singolo gesto, i piedi tradiscono l’impazienza di una mobilità in potenza.
Petra Von KantL’arriflex scivola da un corpo all’altro, le segue dall’alto, le indaga da ogni possibile punto di fuga: i dettagli e il quadro, il niente e il tutto di un obiettivo che resta sempre emotivamente al di fuori dell’azione, a raccontare, dipingere, delineare, contrastare. Mai un commento su ciò che accade, solo la lucida trasposizione di un punto della vista, uno sguardo onnipresente e siderale sulla passione e suoi feticci.
Terzo segno: significazione del cromatismo. La profonda convinzione di Fassbinder che il colore rappresentava un linguaggio filmico primitivo, irrinunciabile nella costruzione emotiva dell’intreccio, è testimoniata dall’impiego di una riproduzione del dipinto di Poussin “Mida e Bacco” come fondale scenico. L’opera, che ritrae il re Mida nell’atto di ringraziare Bacco per averlo finalmente liberato dal potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava, destinandolo così a sicura morte per fame e per sete, s’inscrive nella tradizione secentesca di rappresentazione dei Baccanali che prese avvio con Tiziano. Una scena classica dunque, nella quale la presenza della divinità, ai cui cerimoniali si fa risalire l’origine della tragedia, sembra essere un diretto riferimento all’arcaico teatrale. Ma i Baccanali erano soprattutto celebrazione del furor: passione erotica e invasamento artistico, sfrenatezza dei sensi e liberazione degli istinti.

Petra Von KantE sfrenata è sulla scena la presenza di quel rosso sanguigno di Poussin: le diafane sirene di quest’inquieto viaggio nella smania amorosa si stagliano sull’orizzonte del topos classico come allegorie astratte dal tempo. Gli stessi costumi scelti da Fassbinder, che in talune occasioni riecheggiano il gusto anni ’30 per le fastose stole di pelliccia e per abiti drappeggiati su geometrie dèco, compongono lo scenario di un museo iconografico della memoria. Il cipria degli abiti di Petra e il rosso ciliegia della sua parrucca, il bronzo del decolletè di Karin, il penitente nero dell’uniforme di Marlene, ognuna di loro interpreta se stessa nell’apparire, oltre che nell’essere, e la giustapposizione cromatica e stilistica delle rispettive peculiarità concorre a saturare il realismo visivo nelle nuances dell’ossessione. Michael Ballhaus, direttore della fotografia in questo e in altri 13 capolavori di Fassbinder, ha ribadito spesso quale era stata l’influenza del regista Douglas Sirk, nato Detlef Sierck, nell’impiego di luce e colore per l’articolazione drammatica dei personaggi. In “Die bitteren Tränen der Petra von Kant”, annoverato, insieme a “Die Ehe der Maria Braun” – Il Matrimonio di Eva Braun, 1978 – e “Bolwieser” – La Moglie del Capostazione, 1976 -, tra le più riuscite collaborazioni con l’enfant terrible di Monaco, è la dialettica tra luci e ombre, sulla scena come nell’intimo delle protagoniste, a raccontare allo spettatore la dolce e brutale assolutezza di quel momento dell’essere che chiamiamo amore.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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