di Giorgio Montefoschi
A Roma una retrospettiva fa emergere il lato religioso dell’artista americano. La fede cristiana della madre e il culto delle immagini sacre
Scrive, a proposito delle icone, Pavel Florenskij, il monaco russo filosofo, biologo, matematico e teologo, deportato dal potere comunista nel gulag delle isole Solovki e fucilato in un luogo sconosciuto nel dicembre del 1937: “Come una visione sfolgorante, straripante di luce si mostra l’icona. È come se non fosse circoscritta, non puoi parlare di questa visione altrimenti che con la parola: soverchia. Si riconosce che è superiore a tutto ciò che circonda, situata in uno spazio tutto suo e nell’eternità. Indubbiamente essa è quest’opera del pennello: ma non si capisce come lo possa essere e non credi ai tuoi occhi testimonianti questa vittoriosa trionfante bellezza… I pittori di icone testimoniano non della loro arte nell’icona, cioè non di sé, ma dei santi testimoni del Signore, e con loro del Signore stesso… Così l’icona sempre si riconosce come un fatto di natura divina. L’icona può essere di somma o scarsa maestria, ma alla sua base sta la percezione autentica di una esperienza spirituale sovramondana autentica”.Qual è l’esperienza sovramondana, e autentica, del pittore di icone Andy Warhol, vissuto e morto mezzo secolo più tardi del monaco russo nel Paese della Coca-Cola e del dollaro, dei frigoriferi e dei fumetti, prima del disastro delle Twin Towers, delle due guerre in Iraq, di Ossama Benladen, di Guantanamo, del trionfo funebre di Giovanni Paolo II, tanto per citare alcuni degli eventi e dei personaggi che certamente avrebbero trovato posto in quella specie di grande cinegiornale con il quale raccontò l’America e il suo tempo? Quale, la natura divina, in un’opera di trionfante bellezza nella quale potrebbe sembrare assente il pennello? Infine, se come ha scritto Robert Rosemblum, “le sue gallerie di figure mistiche e superstar somigliano a una antologia di santi precristiani, esattamente come la raffigurazione delle labbra disincarnate di Marilyn su un unico barattolo di minestra assurgono a icone di una nuova religione, richiamando alla mente il cristallizzato isolamento di sante reliquie in uno spazio astratto”, se questo è vero, qual è, in cosa consiste la loro santità, e quella di Marisa Berenson e Truman Capote, Miguel Bosé e Jane Fonda, Lana Turner e Valentino?
Dov’è, allora, che possiamo riconoscere lo spirito religioso di Andy Warhol? Tra le tante sue dichiarazioni sottratte alla routine mondana dell’intelligenza e della volontà di stupire l’interlocutore, ce ne sono tre che si specchiano e, in particolar modo, fanno riflettere. La prima: “Quanto più si guarda la stessa cosa, esattamente tale, più il significato scompare e più ti senti meglio e più vuoto”. La seconda: “Penso che siamo un vuoto qui alla Factory. Mi piace essere un vuoto…” La terza: “Non ho capito perché, quando si muore, semplicemente non si svanisce, e ogni cosa potrebbe continuare a procedere come prima, con l’unica differenza che tu non ci saresti più”.
La cancellazione; il vuoto. Può essere, come ha scritto John Cage, “che con la reiterazione Andy Warhol ha voluto mostrarci che in realtà non c’è ripetizione, che tutto ciò che guardiamo è degno della nostra attenzione”. Tuttavia, può risultare vero l’esatto contrario: e cioè che, nella reiterazione infinita, il soggetto venga a perdere la sua identità. E questa è cancellazione, vuoto. Esattamente come è cancellazione, vuoto, la capacità di Andy Warhol – comune agli artisti della Pop Art – di cancellare dai dipinti e dai disegni le tracce del “fatto a mano”, dell’artisticità e delle creatività, dell’espressione e dell’invenzione. Non è, infatti, questa “umiliazione” dell’artista, del facitore che sceglie di essere rappresentato dall’anonimità degli oggetti del consumo (rappresentati, peraltro, nell’ottica amorfa e tragica dei consumatori: dunque, nell’ottica più infima), non è questa “umiliazione” dell’artista-consumatore, dicevamo, il tentativo di raggiungere una sorta di cancellazione collettiva dell’anima, una sorta di “grado zero” collettivo dello spirito, una vera e propria povertà cristiana dello spirito, per la quale ogni differenza fra artista e fruitore scompare, l’artista sa di essere un nulla, il fruitore sa di essere un nulla, entrambi sanno di essere un nulla davanti a Dio: simili, tutti, a quelle tavolette immacolate di cera sulle quali Dio, a proprio piacimento, o secondo il proprio capriccio, lascia cadere talvolta il suo segno, o la grazia?