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Teatro, la recensione di Ulster American: Woody Harrelson affascina nella satira sul privilegio

L'opera del drammaturgo nordirlandese David Ireland conquista Londra

 

Ulster American è al Riverside Studios di Londra fino alla fine di gennaio

Woody Harrelson

I biglietti più economici per l’Ulster American sul sito web costano 135 sterline, quelli più costosi 170 sterline e la lotteria giornaliera per i posti a sedere a prezzi accessibili è invasa dalle richieste; si tratta di un vero e proprio evento per gli assediati Riverside Studios, che sono stati messi in amministrazione controllata all’inizio di quest’anno. Perché tanto clamore? Woody Harrelson, più che mai in voga dopo la stagione dei premi cinematografici per l’esilarante satira Triangle of Sadness, torna sul palcoscenico londinese per essere, beh, esilarante in una satira. Opera del drammaturgo nordirlandese David Ireland, Ulster American è un’analisi del privilegio dei bianchi e un’opera identitaria su cosa significhi essere britannici e irlandesi. Harrelson interpreta l’odioso attore americano Jay Conway, che lavora con il regista britannico Leigh Carter, portato in scena da Andy Serkis in modo ricco e strutturato. Louisa Harland, attrice di Derry Girls, completa il cast nel ruolo di una giovane drammaturga irlandese, il cui non invidiabile compito è quello di lavorare con entrambi gli uomini alla messa in scena del suo spettacolo, dopo che Conway ha deciso che le sue radici protestanti della classe operaia non sono il tipo di identità irlandese con cui è d’accordo. Harrelson e Serkis, in scena insieme per quasi due ore senza intervallo, sono un’allegra doppietta, che riesce a centrare in modo clownesco sia le risate intense che l’oscurità assoluta. Harrelson sembra così a suo agio da far pensare che abbia passato la vita a calcare le tavole del palcoscenico, ma con decine di ruoli cinematografici famosi all’attivo, il 62enne ha all’attivo solo una manciata di apparizioni sul palcoscenico. Si esibisce in prese per le mani e in convincenti coreografie di combattimento, strappando risate, senza dare l’impressione di aver sudato. Ci sono parti in cui sembra che il regista Jeremy Herrin abbia semplicemente detto “Oh, allora vai” e abbia lasciato che Harrelson si alzasse e facesse cose divertenti con i suoi muscoli facciali, solo sul palco, come un trapianto americano di Mr Bean. C’è una scena con una benda sull’occhio in cui si aggira facendo lo scemo e potrei darmi malato per guardarlo fare solo questo. In alcuni momenti si ha l’impressione che stia facendo il clown fuori dal personaggio. Serkis è probabilmente migliore, e indossa l’ansia e la timidezza del suo personaggio come se fosse la sua stessa pelle. Carter è anche il ruolo più interessante: consapevole di sé e convinto di essere davvero moralmente integerrimo, diventa un totale ipocrita quando si rende conto che le sue stesse convinzioni potrebbero causargli un grosso fastidio al lavoro. È tutto molto divertente e le interpretazioni comiche sono sufficienti a far passare questo lungo atto senza alcun ripensamento per la durata insolitamente lunga del film. Questo non vuol dire che la sceneggiatura di Ireland sia altrettanto curata quanto le interpretazioni: alcune battute, come quella sull’essere irlandese come una carestia di patate, cadono a vuoto, e nel complesso la trama sembra un po’ sottotono. Ireland solleva alcune domande interessanti, in particolare sulla malleabilità degli uomini e delle loro convinzioni, soprattutto nei confronti di altri uomini. Ma a conti fatti c’è un po’ troppa scena e la trama scivola un po’ troppo comodamente. Questo fino a quando non si arriva ai sorprendenti quindici minuti finali, quando il regista Jeremy Herrin e il direttore dei combattimenti Renny Krupinksi introducono un’aggressività avvincente e davvero difficile da guardare, anche se a tratti sembra un po’ un dramma di primo livello. C’è anche un’ironia un po’ scomoda nel tono: Ulster American è pieno zeppo di battute intellettuali sul teatro. A un certo punto, durante una discussione sui critici teatrali, il Conway di Harrelson dice: “L’unica cosa che voglio leggere da un critico teatrale è una lettera di addio”. Il pubblico di star della prima serata, che comprendeva Brian Cox e Stanley Tucci, era in preda a una crisi isterica. Ma per un’opera che parla dell’oppressione sistemica contro una donna della classe operaia per mano di due uomini bianchi privilegiati, c’è un’ironia nel fatto che questo spettacolo è stato chiaramente scritto per intrattenere il pubblico privilegiato del teatro londinese.

Ulster American è in scena ai Riverside Studios fino al 27 gennaio.

 

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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