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Nuova mostra ripercorre il viaggio del fotografo e rifugiato iracheno verso l’Irlanda del Nord

Un fotografo e rifugiato iracheno che ora vive a Bangor ha condiviso le sfide del suo viaggio in Irlanda del Nord in una nuova mostra. Yousif Al Shewali (24 anni) ha esposto le sue opere al Sunflower bar di Belfast venerdì scorso, dando uno sguardo intimo alle esperienze vissute lasciando l’Iraq per attraversare l’Europa e i campi profughi in Grecia prima di arrivare nel Regno Unito. Prima della mostra, ha raccontato di essere arrivato nel 2018 nel famigerato campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo. Era il più grande campo profughi d’Europa prima di essere incendiato nel 2020 e lasciare quasi 13.000 persone senza un riparo. Circondato da filo spinato, Human Rights Watch lo aveva precedentemente descritto come una prigione a cielo aperto. Yousif ha detto che i volti, le persone e le storie – sia buone che cattive – che ha incontrato lì hanno lasciato un’impressione duratura.

“L’isola non è sempre stata gentile con me, anche se sapevo che il mio viaggio verso la salvezza sarebbe stato duro, non avevo idea delle difficoltà che avrei affrontato durante il processo e dei momenti straordinari che avrei vissuto”, ha detto. La frustrazione che mi è rimasta dentro è stata l’impotenza che tutti noi sentivamo sull’isola, il fatto che raccontare le nostre storie non fosse nelle nostre mani. Mettermi dietro la macchina fotografica è sempre stato uno sfogo per me, ma durante il periodo in cui ho vissuto a Moria l’ho perso di vista, stavo facendo del mio meglio per non vedere più, per non vedere la sofferenza, il dolore e la rabbia”. Alla fine ha deciso di reagire alla situazione e di documentare le esperienze umane delle persone colpite. “Molte persone sono venute a raccontare le storie, come estranei che guardano dentro. Io voglio raccontare la storia dall’interno: il bello, il triste e il brutto”, ha detto. “Molte delle persone che vedrete nel mio lavoro sono i piccoli, le anime più innocenti che aspettano che qualcuno si prenda cura di loro. Dobbiamo farli diventare importanti, devono essere visti”. E ha aggiunto: “Gli altri sono semplicemente persone con storie da raccontare, con occhi pieni di speranza o di disperazione. Voglio raccontare le nostre storie al mondo, rappresentare la nostra sofferenza senza togliere la nostra dignità. Mostrare le difficoltà della nostra vita e le sfide che stiamo affrontando per sopravvivere senza togliere forza alla nostra vita”.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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