Arene

Trincee Etnofoniche

“…zero a zero sofferti, vittorie importanti, trasferte lontane, panini divisi, amici, birre autogrill, cappuccino e cornetto, goal in fuori gioco, rigori negati, bandiere al vento, sciarpe, fumogeni, torce accese, aste, invettive, cori, abbracci, occhi assonnati, risate, pali, traverse, ammonizioni, goal spettacolari, incornate vincenti, calci d´angolo, settori ospiti, biglietti, file polemiche, risposte, domande, chilometri percorsi, risse simulate, vino, sguardi confusi, tensione, pioggia, neve, vento, quote Snai, cellulari che squillano, sms, punizioni dal limite, cd, libri, giornali, figurine, derby, aneddoti, ricordi, brividi, emozioni, pensieri, lacrime, pacche sulla spalla, arrabbiature, ripartenze, sovrapposizioni, mediano, terzini fluidificanti, via dei Gladiatori, Bar del Tennis, Lungotevere, Caffè Borghetti, l´Obelisco, “la Palla”, i sorrisi, le sofferenze, le avversità´, i tre a zero subiti, lo stop a seguire, il 4-3-3, il libero, la zona, la difesa alta, il centravanti boa, i supplementari, i portieri volanti, i colpi di tacco, il calcetto, il calciotto, il calcio balilla, il centromediano metodista, il numero 5, l´Arena Garibaldi, il Dino Manuzzi, Il Marcantonio Bentegodi, il San Siro, l´Olimpico, il Via del Mare, l´Artemio Franchi, l´Omobono Tenni, il Delle Alpi, il Comunale, il San Nicola, l´arbitro cornuto, le teste appoggiate ai finestrini, i cori di scherno, gli striscioni offensivi, i battimano, le cariche, i racconti, gli sbadigli, le vie strette, i transit, il treno, i pullman, le macchine, le magliette sudate, la bandana, i tatuaggi, i saluti, le sfide, le scelte, le contrapposizioni, gli scudetti vinti, gli scudetti persi, i fratelli veri, le amicizie indissolubili…
Io non ci rinuncio!”

“L’autore migliore. L’autore migliore sarà quello che si vergognerà di diventare scrittore.”
Friedrich Wilhelm Nietzsche

Trincee Etnofoniche di Alessandro Nini

Aska

Un palcoscenico al buio. Il monologare diventa racconto. Poeta e pirata sospeso tra innovazione e tradizione. Autore vulcanico e polimòrfo del serale radiofonico romano. Alessandro Nini, Sandro: “sociologo della curva” e di un calcio che gli fu compresente ma che oggi sfida. Appartenenza col passato alla temporalità universale, ostinatamente donchisciottesco. Una puntuale resa dei conti delle ore venti con chi si affida alla lunare lievità buffonesca del racconto del nulla; del giornalismo dei privilegi e di una piazza, come quella romana, che si muove libera dalla verità disarmonizzandosi da essa e che niente rigenera e nulla restituisce a chi ama i colori di una storia e di una città. Dissacrante spaccacasta di un sistema dinastico editoriale e soul talk man da quasi un ventennio di un momento rivoluzionario lungo tre ore; non più vissuto come sintomo reazionario, della conservazione, del narcisismo, di chi invece circonda, aspetta, Il Canto Libero temendolo. Sublima e ristringe le distanze attraverso forse il più antico dei mezzi di comunicazione con epistolari totali, nobili e popolari al tempo stesso che assumono forme marmoree e monumentali come nelle opere di Enrico Del Debbio. Tra due persone distanti ma tra loro ma vicine, sono dei sofisticati messaggi in bottiglia, molotov etimologici; sciarpate antisistema a costo zero in modulazione di frequenza. “Sono solamente un tifoso della Roma come tanti altri…” è la verità come intima contraddizione e non un virtuosismo tonale che segnala l’amplificazione ironica dell’asserzione di chi ogni sera parla a duecentomila persone che attendono il controcanto, antifrasi e l’ingrandimento solenne e spericolato contro quelle corazzate che hanno un nome e una sede e talvolta un colore. Il Rosa. Dialettica unica e che informa duellando con chi mette in gioco memoria storica, valori e forme canoniche dei romani e dei romanisti ma sempre consapevole della propria storia intellettuale e della sua gente, con l’arma di una sostanziale indifferenza non volta a mediare il dissenso né a interpretarne la prostituzione professionale dell’ambiente pallonaro, degli accrediti e delle coscienze scadute.
Buio. On air.

SUD.

A.N. La sud, già…la Sud.
Un patrimonio certo ma…non soltanto.
Un giaciglio, un monumento, un modo d’essere ma…non soltanto.
Un reflusso di coscienza che ci ha strappato alla strada per riconsegnarci alla strada con la stessa onesta vigoria.
Un abbraccio di molti, un pensiero di tutti, più forte di tutto e malgrado tutto.
Abbiamo vissuto cose che non racconteremo mai nella loro interezza, incastonate nell’anima viva di chi non ha mai mollato neppure un ricordo.
La Sud è stata un soffio sulla cenere che non smette di ardere, un percorso di sangue che abbraccia generazioni diverse, lontane, a volte agli antipodi.
Ci ho passato una vita giovane là dentro, con i fumogeni a scaldarci la gola e le torce ad illuminarci il cammino, ci ho vissuto le carezze ed i pugni migliori, brividi e lividi, sospiri e tempesta, quella stessa tempesta che abbiamo affrontato con zattere di fortuna e spesso controvento.
La Sud è una madre coi figli giovani, è una mano tesa senza risparmio, è quello che ogni sera sento rimbombare dentro di me, quando addormentandomi lascio spazio ai sogni migliori.
Nomi, volti, amici, paure, abbracci e passi pesanti.
Là dentro non siamo solo cresciuti, li hanno messo le tende i nostri cuori.
Non una location, ma una vibrazione dell’anima.

L´Ingegnere.

A.N. All’interno di una questura in quel di Torino, dopo gli scontri furiosi con la tifoseria juventina, sette ragazzi tra i 18 e i 36 anni.
Fermi, seduti, stretti in un silenzio che faceva rumore.
Un’ora, forse due, in uno stanzone senza finestre, senza riscaldamento nonostante gli zero gradi.
Il signore che entra in questura è minuto ed indossa camicia, cappotto e occhiali con le lenti oscurate, pochi passi, un sorriso abbozzato, modo cortese e toni decisi: “Sono Dino Viola, il presidente della Roma, qualsiasi cosa abbiano fatto i miei ragazzi mi ritengo io l’unico responsabile”.

Dino Viola era un padre sereno e diretto, uno straordinario stratega dalla visione lungimirante, uomo garbato e non condizionabile ha avuto un rapporto speciale con quelli che lui stesso chiamava “i miei ragazzi”.
Quei ragazzi erano la sua Curva, i suoi colori, una vita tra bandiere sventolate al cielo e fumogeni a colorare le gradinate di tutta l’Italia.
Una stretta di mano verace e vorace ad un mondo che va troppo in fretta, la schiettezza fatta persona con il paltò e la camicia inamidata.
Lo abbiamo amato, difeso, rimpianto e persino contestato ma siamo rimasti fedeli agli affetti e ai principi di una volta.
Non gli abbiamo mai perdonato Manfredonia ma col suo “Violese” abbiamo masticato l’anima dura di un calcio votato allo show business, quel calcio che vede e cerca le multinazionali non gli abbracci di una volta.

Dino Viola è il riferimento, lo stile e il portamento di un calcio che non esiste più.
A Roma-Juve nel 1986 si alzò in piedi per ammirare “i suoi ragazzi” che coloravano lo stadio, col Bayern Monaco li ringrazio e li portò ad esempio per ciò che dev’essere da esempio.
Aveva la dote di essere libero, aveva l’orgoglio smisurato dell’appartenenza, la tenacia della rappresentatività.
Sapeva comprendere e sapeva esserci.
Una sera al culmine della contestazione per Manfredonia ci presentammo in duemila sotto la sua abitazione.
In dieci minuti si presentarono tre blindati e sei macchine della polizia di stato.
Lui scese, elegante come sempre, e si recò dal funzionario di pubblica sicurezza per dirgli: “Voi potete andare, questa è una riunione di famiglia”

Lo era davvero.
Da una parte il Presidente, dall’altra “i suoi ragazzi”.

Curva SUD Roma

GAM: una ferita mai rimarginata.

A.N. Eravamo giovani, idealisti, innamorati dei percorsi dell’anima e di una squadra di calcio.
Valori estremi come l’appartenenza, come la fede pagana, come le sciarpe tese a segnare un territorio.
Avevamo un bel piglio, con la vita che si viveva nelle strade, la Roma si tifava in curva e gli amici si tiravano via dalle faccende losche, difesi col cuore in mano e la rabbia nella tasca dei jeans, con il tempo tiranno che correva dietro ai nostri anni migliori.
Era importante la condivisione, gli occhi negli occhi, la spinta per superare la staccionata.
Era importante il fazzoletto imbevuto d’acqua quando i lacrimogeni ci regalavano amianto e lacrime, era importante tornare a casa, rigorosamente tutti e tutti assieme.

Manfredonia fu una ferita lacerante, un sopruso al sentimento, il vilipendio ai colori.
Si diceva brindò a champagne la coppa dei campioni ciabattata sulla traversa con il Liverpool.
Laziale e Juventino ma non soltanto.
Un prototipo, un simbolo di quella tecnocrazia strappa denaro che rifiutavamo ieri e riteniamo deleteria oggi.

Amici che si tolsero il saluto, strade divise, curva spaccata e quel senso d’impotenza nel vedere “quello lì” con la nostra maglia addosso.
Nulla fu predeterminato e non esistono vincitori e vinti, la maglia messa come scudo alle logiche di vittoria, la Roma come stato d’essere che non andava mai infranto.
Anni eterni che scivolavano sulle coscienze di tutti, un gruppo, IL gruppo ultrà per antonomasia spaccato in pro e contro.
Quei lividi ancora si vedono, ancora danno male se li tocchi, ancora persiste il sangue pisto.
Manfredonia si scusò con la curva previo un comunicato a mezzo stampa, parole di facciata è chiaro, ma servirono per svegliare coscienze assopite.

“Finalmente la nostra Roma!” recitava uno striscione in una partita che “quello lì” saltò per squalifica, si tornava a tifare facendo rullare cuori e tamburi, le bandiere sopra le teste, le sciarpe dal collo al cielo in un nano secondo.
Nessun vinto, nessun vincitore.

Manfredonia era la gramigna di un calcio moderno che bussava alle porte, noi semplicemente chiudevamo quella porta, la sbattevamo al muro come il muratore fa con la calce.
Roma-Monopoli e Roma-Genoa di coppa Italia al Flaminio sono stati i giorni più duri della nostra storia.
I più sofferenti, i più inspiegabili, i più tosti.
Rimangono dei ricordi dai quali siamo ripartiti, con la forza dei pochi e l’incredula circospezione dei tanti.
Manfredonia è un passato tetro e un presente di memoria che abbiamo vissuto, per questo non vogliamo dimenticare.
Difendemmo la Roma, null’altro.

Antonio.

A.N. Che poi tra le ferite quelle laceranti davvero la vicenda Manfredonia è seconda solo a quel maledetto 4 giugno 1989.
Un Milan-Roma inutile per noi, di fine stagione, loro che festeggiavano e noi ad aspettare che l’ennesima stagione passasse di netto, diciamo senza colpo ferire.
Una Roma casereccia ma bella da far impallidire ogni cosa, combatteva questo si, e nessun tifoso ha mai chiesto altro alla sua squadra.
Combattere, per la maglia e per la gente.
Il 4 giugno 89 Antonio De Falchi era partito con altri due amici, treno, sonno, risate, alba da benedire in viaggio e la voglia di essere accanto alla Roma e ai sogni di tutti.
Come quei tutti che partendo per una trasferta si vanno a cercare uno spicchio di mondo più o meno lontano, un modo reale di vivere una passione massacrata da altri.
Un agguato in grande stile, con tanto di esca, controllo del territorio e assalto in tanti contro pochi, in trenta contro tre.
Senza una logica ultras, senza una lealtà di fondo che si rispetti tra le parti.
Milano era la solita Milano da bere, col caldo dell’estate che bussa alle porte e le strade con l’asfalto torrido.
La stazione centrale con la navata ricurva su sé stessa e appena esci il piazzale enorme davanti, pochi Taxi quel giorno, nessun vociare canonico, nessun riparo per le nostre umane debolezze.

Antonio morì in ospedale, col cuore lacerato da tanta vigliacca rincorsa, con le immagini vive di una bieca violenza spesa all’impazzata.
Li sul selciato cedendo con le gambe e con i suoi giovani diciotto anni, solo diciotto, nemmeno uno di più.
Arrivo poi il martirio del processo, la famiglia impaurita dalla pressione dei media e dalle continue, balorde, minacce in aula.
Silenzio di tomba e nessun revisionismo, con gli assassini a piede libero e con un piede nell’impunità bislacca.
Anni e anni di reprimende in tribunale e un processo farsa, carta straccia.
Di Antonio rimane il ricordo, e la rabbia.
Affinché il suo sacrificio non ci abbandoni mai e risuoni nelle teste di chi questa squadra l’ha seguita e la segue ovunque, senza mai mollare la presa.

Alea iacta est. Agitazione. Mobilitazione. Montaggio. Spiriti scomodi, curve insubordinate. Oltre l’eversione, si alza lo scontro con lo Stato

“La vita è tutta ‘na trasferta!”
Noi la pensiamo così, nella semplicità di uno slogan che rivendichiamo, nel racconto dettagliato di ogni viaggio in lungo e in largo accanto alla Roma.
La trasferta che non è sono soltanto novanta minuti di calcio ma uno spaccato di vita comune, di sogni comuni e di comuni tragitti.
Di trasferte tante, di rimpianti nessuno.
In 25 mila a Bari, in 700 a Bergamo.
In 8 mila a Madrid e in 150 a Tromsoe, dove di notte mangiammo carne di balena e sushi.
A Brescia con gli spalti che sanno di storia ultras, a Verona da padroni, a Napoli contro tutto e tutti.
A Torino contro i gobbi e sempre a Torino con i Granata Korps davanti, a Firenze sempre in tanti e a Como ultima uscita italiana prima del confine.

Brescia nel 94 lo spartiacque tra vecchia e la nuova repubblica del tifo, con la vecchia generazione a respirare ribellione, scontro, libertà.
Una libertà di chi diceva no e, seppur con i braccialetti ai polsi, sorrideva in faccia al mondo borghese.
Quei ragazzi cresciuti li ritrovi oggi nei pub e non ti rispondono, ti concedono un sorriso che sa di carezza e un abbraccio che sa di condivisione.
Napoli nel 2001 contro la spocchia di chi aveva previsto tutto ed eravamo lì a guardarci le spalle gli uni con gli altri, come fratelli di latte che concedono l’ultimo sorso al più piccolo e al più fragile.
Milano nella finale di Coppa UEFA, con la vita unità e le membra stremate, con il tifo alle stelle e la gente che si apriva ai lati delle strade al nostro passaggio.
Come quella volta a Bordeaux, oppure a Manchester.
Roma contro tutto, persino contro la piccola pubblica opinione.

Le trasferte hanno significato rappresentatività, esserci a prescindere, esserci con ogni mezzo.
Esserci per la città, per la maglia, moltissimo per noi.
Per noi che l’amiamo, per noi che la difendiamo.
Con le bandiere, gli stendardi a due aste, la vita che scivolava via correndo sull’autostrada avanti indietro.
Con l’orgoglio di raccontare un vissuto che ci ha visto leali e anonimi protagonisti.
In Italia certo, ma anche ovunque.
Londra, Liverpool, Valencia incluse.

Con il dovere da compiere e la storia da tramandare, con la corsa a perdifiato per i biglietti, per chi comprava le torce, per chi portava striscioni e bandiere.

“Neanche cinque partite in casa valgono una trasferta.”

Ne sono convinto.

Il marketing delle coercizioni

A.N. A livello sociologico cosa è mutato negli ultimi 15 anni sono i parametri e i riferimenti all’interno della società in cui viviamo, ci hanno cambiato indirizzi, materie scolastiche, lessico, valori, persino i sentimenti, regalandoci tante domande e nessuna risposta, tanti dubbi e nessuna certezza.
Lo stadio che abbiamo vissuto e che viviamo non è esente da questo mutamento generazionale, architettonico e sentimentale che ha attraversato le nostre generazioni.
Ciò che prima veniva considerato folklore o scenografia di curva adesso viene considerato reato e allora fumogeni, torce, coreografie non autorizzate rimangono un ricordo tenue, tenace, lontano e su chi prova a resistere giù daspo e multe anche per un semplice “cambio posto”.

Mi spiego.
La strategia delle istituzioni è una goccia cinese partita anni e anni fa con misure cautelative diventate negli anni coercizioni fisiche e concettuali.
Un passaggio non ha vuoto per loro, una resistenza umana e fisica per tutti quelli che con garbo e forza hanno saputo dire no.
La tessera del tifoso è stato uno spartiacque non da poco, arrivata tra clamore e sconquasso ha scatenato manifestazioni di piazza, riunioni fiume da parte di alcune tifoserie, discussioni su come, in effetti, non si debba mai chiedere il permesso di essere liberi.
Perché la libertà è un valore mica caffè e cappuccino, e l’allora Privilege Card sembrava attaccasse quel valore primordiale, quella radicalità di pensiero, quella sfrontatezza quasi compulsiva.

Perché attaccare il tifoso di Curva?
Perché libero, non ci sono altre spiegazioni.
Per essere chiari.
Il tifoso non costituisce una minaccia quando si prende a sganassoni, il tifoso costituisce una minaccia quando mette in atto un’idea che diventa azione, quando il pensiero costituisce un´opposizione di concetto, quando alcuni striscioni ti sbattono in faccia una verità altrove sottaciuta, quando la ribellione è incanalata verso l’attacco al potere vero, non quello forte ma quello occulto.
L’attacco al calcio moderno e ai suoi falsi profeti, il rivendicare un ruolo antagonista ed elitario, il prodigarsi contro il caro-biglietti o più semplicemente la lotta per un simbolo violato dal business, per una data alla genesi della nostra società, oppure uno stadio più fruibile dove non ci siano difficoltà per i diversamente abili, le persone anziane, i bambini.

Non ci è concesso pensare nel mondo dell’ovvio e allora l’unico mezzo in contraltare diventa la repressione.
È un paese, il nostro, dove le leggi speciali esistono per i mafiosi e i tifosi di calcio, dove scatenare negli stadi un laboratorio a cielo aperto di vivisezione culturale ed ideologica, dove fare carriera con arresti e denunce indiscriminati.
Qualcuno si è allontanato anche per questo, perché a questo bluff continuo ha risposto picche, non partecipando al pranzo delle menzogne, al rigurgito dei benpensanti.
Le card del tifoso sono state un ammortizzatore sociale, la sperimentazione di ciò che avverrà nelle strade, magari sui posti di lavoro, perché no nei centri commerciali.

Tu si, tu no, loro forse.
Una logica bislacca, una scelta fallimentare, la vera black list della democrazia.
Qualcuno quel maledetto Articolo 9 l’ha subito davvero, irrimediabilmente.
Rimangono i pensieri, a volte i ricordi, altre volte la rabbia.
Rimangono però anche le certezze, perché da queste latitudini abbiamo visto solo gente che non ha mai mollato.

Blah Blah Channel

Antagonismo: la formidabile antitesi tra il calcio moderno e quello antico determinata da tutto quello che prima non c´era. Quando il nazionalismo entra nelle curve d´Europa

A.N. Un continuo richiamo al passato, una malinconia latente, un vorremmo ancora e non possiamo più ma anche l’amara consapevolezza di non esserci abbastanza spinti oltre, di non aver resistito a dovere, di esserci lasciati lobotomizzare da un calcio moderno tecnocratico e televisivo.
Sociologicamente dovrei richiamare alla memoria le storie del passato ma questo m’interessa meno, è la strategia certosina di mutamento che m’interessa, il progetto di un calcio privo di sentimenti e gonfio di lustrini e finto sfarzo che ancora mi lascia interdetto.

Capiamoci.
Il calcio di oggi va sui social perché i social oggi ci sono e ieri non c’erano, i campi in terza/quarta generazione a dispetto del polverone che si alzava sulla terra battuta ma esserci fatti trovare impreparati è stata la vera chiave di volta.
Il calcio moderno lo contestualizzo come genesi alla fine degli anni ottanta.
Anni di libertà represse, di valori caduti, di sconfitte generazionali pesanti e di confronti politici ormai sfumati nel reflusso di un tempo frenetico.
L’appiattimento culturale ha fatto il resto, sfasciando di netto un´energia ed un impegno propedeutici ad una sana generazione.
In politica una logica degli opposti estremismi foraggiata dal potere, una destra che implodeva nelle lotte intestine ed una sinistra sterile, che non proponeva ne confronti ideologici ne scontro dialettico.
La piazza lasciata ai Sindacati in doppiopetto e ai cantanti che cantavano la rivoluzione con i miliardi in saccoccia e gli ultimi rimasugli di tossicodipendenza cronica sostituita dall’allucinazione virtuale.

Il mutamento generazionale entra negli stadi sotto forma di moda casual, vestiario, lessico, valori mutati, il calcio moderno sforna le televisioni.
Apriti cielo.
Il nostro calcio di domenica alle 15 violentato da una partita al serale, noi che di sera vedevamo solo le coppe, il primo fottuto posticipo al quale abbiamo ceduto, il primo anello di una strategia maledetta che avrebbe avuto compimento e finale quindici anni dopo.

Il calcio moderno è la var e le riprese negli spogliatoi, i tatuaggi in primo piano, le curve mai inquadrate, i fumogeni vietati, le torciate spente.
Il calcio moderno è stato il tornello, la tessera del tifoso, il caro biglietti per i settori popolari.
Le trasferte vietate, i settori ospiti lontano dal terreno di gioco, le reti di recinzioni alzate oltre misura e le telecamere a riprendere volto e documento nelle trasferte più complicate.
Il calcio moderno è la celere nelle curve e gli steward come barriere per dividere le curve stesse, è la cancellata all’obelisco, le perquisizioni uno per volta con tremila persone alle spalle, sono gli orari cambiati, il campionato spezzatino, le partite all’ora di pranzo.

Il festival aberrante della novità più volgare ed estrema, lo spazio lasciato ai diritti televisivi e il continuo diritto leso ai danni di chi paga il biglietto o, peggio ancora, un abbonamento a scatola chiusa, non sapendo giorni, orari, programmi.
Tutto questo sulla nostra pelle, sulle nostre vite, sulle nostre abitudini primordiali, sui nostri riti apotropaici tramandati di generazione in generazione, tutto questo sulla pelle dei giusti, di chi votato alla passione non ha mai goduto di accrediti e biglietti omaggio.

Il calcio moderno è una manovra di delocalizzazione della passione, prendere il pubblico innamorato e passionale e abituarlo con il culo sul divano e, in contemporanea, costruire nuovi tifosi dandogli l’illusione della comodità e dello sfarzo.
C’è chi ha mollato la presa, chi si è adeguato, per gli ultimi ostracisti la repressione ha sfornato nuove forme di “tortura”: gli arresti in flagranza differita, le multe per il cambio posto, le barriere in curva, il daspo di gruppo, le black list e, in estrema ratio, la sorveglianza speciale.

Bisogna fare una ulteriore considerazione.
Il movimento calcistico ha dato ampio fianco a tutte queste politiche anti-tifoso.
Le società in primis che collaborano fattivamente con le questure, i media asserviti, i giornalisti integrati al sistema, gli scribacchini di regime che fanno a gara per sentenziare odio ed emanare condanne pubbliche, anche in un suolo natio dove si è TUTTI innocenti fino al terzo grado di giudizio.

La legge non è uguale per tutti, o meglio nel tribunale c’è scritto questo ma…la giustizia?
Il calcio moderno è nel non supportare Luca Fanesi, nel dimenticare Alessandro Spoletini, nel non ricordare Gabriele Sandri, nel non incazzarsi ancora per Paolo di Brescia, nel non pretendere verità nascoste, sorrisi di sfida, nemici leali.
Un calcio moderno che ha coperto calciopoli, ha lasciato scivolare nelle casse delle società di calcio denaro di dubbia provenienza, salvato alcuni contesti e affossato altre realtà cittadine magari senza santi in paradiso.

Abbiamo combattuto con intifada di pensiero contro carri armati di prepotenza, abbiamo fatto e detto contro chi non ascolta ed agisce nelle retrovie.
Ci siamo ritrovati messi al bando colpevoli di reati di pensiero, rei confessi di una colpa chiamata voglia di tifare mista a passione limpida.

Tutto questo nell’Italia del Grande Fratello, con gli artisti violentati dai Talent show, i Tg in mano ai politici, i comici a governare, le banche a togliere il lavoro agli strozzini e la gente perbene a lavorare per pagarsi a rate uno scampolo di felicità surrogata.
Così è… se vi pare.

La macchina del fango

A.N. Non è facile muoversi con garbo e spregiudicatezza all’interno della comunicazione scritta e parlata, non so altrove ma qui a Roma ci sono Lobby giornalistiche e caste politico-sportive che hanno delineato percorsi, riscritto pagine a piacimento, indirizzato intere redazioni con la logica del “tengo famiglia”, ossia livellando lo stipendio base e garantendo una media tutela economica, l’importante che il giornalista, o pseudo tale, non esca mai fuori da binari preordinati.
Nulla di nuovo, chiaramente, ma la strategia è stata ben affinata negli ultimi anni, un lavoro certosino che ha portato quasi tutti alla massificazione del pensiero, all’appiattimento culturale, alla distanza concreta tra verità e notizia.

È un sistema che funziona, un giro continuo di professionisti a busta paga che, non facendo alcun reato specifichiamolo, si mettono lì a creare illusorie parabole comunicative, un non so che del niente mischiato al nulla.
Per chi non accetta questo gioco accade l’emarginazione, il dileggio, la delegittimazione.
La macchina del fango piuttosto conosciuta come materia di contrasto per gli spiriti ribelli è un´azione decisa e senza fronzoli che mira a colpire l’estensore di un articolo che fa il controcanto o la voce libera che respinge la menzogna correndo col fiatone verso la verità.
La macchina del fango sposta l’attenzione dalla notizia al suo estensore.
Si cerca il cavillo, il reato prescritto, il volgare pelo nel uovo per delegittimare la voce in contrordine e conseguentemente spegnerne la voce e il messaggio che lancia.
Le notizie vengono coperte dal dileggio continuo e concentrico da più redazioni giornalistiche che si stringono a corte per autotutelarsi.

Non sono stato esente dall’infamia gettata addosso al nostro programma in maniera vile e scriteriata, uno screditamento che ha rafforzato lo spirito retto e stancato gli interlocutori, quasi un obbligo a difenderti da un gossip di quart’ordine messo in atto da giornalisti conniventi, faccendieri di Trigoria, viandanti senza patria a caccia di un ritorno a basso costo.
Ci dissero che eravamo pagati, mai preso una lira.
Ci dissero che entravamo gratis allo stadio, mai strappato un accredito.
Ci dissero che eravamo amici dei calciatori, i nostri amici li abbiamo sempre difesi e amati alla luce del sole.
Ci dissero che saremmo durati neppure una stagione, siamo alle soglie dei vent’anni di radio.

Non abbiamo dato credito alle oche starnazzanti, alle maldicenze, alle illazioni false e becere.
Abbiamo resistito agli auguri funebri combattendo da vivi in un mondo che ti elogia postumo.
Siamo stati un Canto, siamo ancora Liberi.

Aska

Mister. “Disgrezieto mister”. Compagno di viaggio del Canto Libero che si muove dalla più ricca reinvenzione in funzione della più pirotecnica delle narrative radiofoniche. Mauro Pieri: in arte il “Mister”. Anarchia. Disordine e genialità
“Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtù,
O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,
Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo… “
Il mister abita li. Prigioniero di quei quattro versi di Kipling in “IF”. E se…
Un pezzo di Roma. Un travertino dai contorni poetici sempre in trincea. Mauro Pieri. Voce musicale: una continua ottava soave al tempo stesso gutturale, propria di una cicala dalla perenne faringite. Punti e vuoti che segnano note. Toni e spazi del West End Blues di Louis Armostrong e di una pastiglia Valda che arrendevole si schianta scivolando in una gola ribelle. Nell´esecuzione, dapprima la forma è interamente subordinata ai colori del giallo ocra e rosso pompeiano. Al fomentar d´essere, memoria e tradizione etnofonica del ventiduesimo giorno di luglio 1927; agile, dinamica, tumultuante di come chi scrive e ama la Roma. Senza compromessi. Senza complicità mercantile e domicili coatti dell´intelligenza, dell´effimero e del gusto leggero di coloro ricantucciano in un calcolato quanto elaborato gossip da pagina quattordici.

Sigillo di Stato

Il Canto Libero. Amicizia, Brividi. Passione

A.N. Di definizioni tante, d’intrallazzi nessuno.
Siamo stati non si sa bene cosa ma di certo siamo stati una bella cosa, un racconto soprattutto, reale, vivo, caciarone, vibrante.
“IlMioCantoLibero” On Air nasce negli anni 2000, a ridosso di uno scudetto agognato quanto meraviglioso e con l’ardire giovane di abbracciare quanti più tifosi possibili.
Non una trasmissione radio ma un avamposto di emozioni in cui non pesavamo i congiuntivi ma il modo di arrivare alla gente.
Scegliemmo di essere liberi, autoprodotti, intransigenti ed eccessivi e costituimmo, allora come oggi, un’alternativa radiofonica che creava quantomeno il dubbio ed in contraddittorio.

Occorre fare un passo indietro.
Le radio romane sono una realtà consolidata nella capitale d’Italia, ore e ore di dirette sulle vicissitudini sportive della squadra di rappresentanza, telefonate, opinionisti a pagamento, ex calciatori, conduttori conosciuti e nuove voci a gonfiare l’etere tutti i santissimi giorni.
“IlMioCantoLibero” non ha mai avuto voglia di contrapposizione con lor signori, semplicemente perché siamo stati da subito un’altra cosa.
Amicizia ad esempio.
Rivendicata con la dolcezza fanciulla di chi affronta le avversità spalla a spalla.
Passione.
Tracimante come un fiume in piena e raccontata con uno stile intenso, deciso, vissuto, dissacrante.

Il microfono è una magia d’intenti, un acquario dove annegare inquietudini e solitudini, una camminata quotidiana col respiro a pieni polmoni.
Una scelta ed un impegno non da poco, una responsabilità ed un’affinità crepuscolare con quella minoranza che non ti regala audience infiniti ma infiniti spunti di ripartenza e riflessioni.
Le nostre voci, la mia e di Mauro, un contorno.
Antidivi per eccellenza abbiamo il gusto, e di certo il privilegio, di essere cantori di un amore forte per la Roma.
Non abbiamo mai rappresentato nessuno, se non la nostra umile idea.
Non abbiamo mai soprasseduto.
Abbiamo raccontato vittorie, sconfitte, storie di calcio e di vita con la leggiadra esigenza di amare e credere nella forza delle idee, in particolare di quelle idee che diventano azione.
Abbiamo raccontato la vicenda di Gabriele Sandri, siamo stati tacciati nel dopo Raciti, abbiamo sollevato da terra storie come quelle di Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Federico Aldovrandi, abbiamo seguito il processo di Giuseppe Uva.

Siamo stati il Canto Libero della lotta alla pedofilia, al Signoraggio, alla sudicia macchina del fango.
Siamo stati e forse siamo ancora un bel salotto di amici e fratelli di vita.
Una bella storia che ha avuto ottimi padri e ottimi compagni di viaggio, coi brividi di chi è cresciuto dentro uno stadio e l’orgoglio di chi in quello stadio ci ha lasciato un pezzo di cuore.
Questa trasmissione non è mai stata né migliore né peggiore di tante altre, semplicemente è un’altra cosa, ha avuto un inizio casuale e avrà una fine indolore ma sono convinto, fortemente convinto, che a rimpiangerci saranno di più i nostri attuali detrattori che il resto.

Perché di un Canto si può anche fare a meno, dell’essere libero no.

Il mio canto libero

Let

Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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