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Operazione Garzón: l’anatomia di una repressione taciuta

A tre decenni dall'azione della polizia, alcuni dei detenuti analizzano il contesto e le conseguenze di un'operazione in cui lo Stato ha cercato di schiacciare il movimento più dissidente e di rottura a favore dell'indipendenza catalana

Il 29 giugno 1992, poco prima dell’inizio dei Giochi Olimpici di Barcellona, le forze di sicurezza statali in Catalogna e a Valencia arrestarono una cinquantina di persone accusate di appartenere a Terra Lliure e di preparare azioni armate in concomitanza con i Giochi Olimpici. L’operazione, istruita dall’allora giudice numero 5 dell’Audiencia Nacional, il giudice Baltasar Garzón, si è svolta nell’arco di tre settimane, durante le quali è stata applicata la legge antiterrorismo agli arrestati con la motivazione che stavano progettando una campagna di attentati – tra cui un sequestro – per disturbare l’evento e trasformarlo in un altoparlante della lotta per l’autodeterminazione e l’indipendenza dei Països Catalani. L’operazione Garzón o Garzonada, come è stata chiamata, ha commosso una parte significativa della società catalana, che è rimasta stupita dal gran numero di persone colpite e dalle denunce di tortura che 17 di loro hanno presentato dopo pochi anni. Va ricordato che solo una minoranza dei detenuti faceva parte o aveva legami con Terra Lliure. Gli altri erano militanti del Moviment de Defensa de la Terra (MDT) e, in misura minore, del Comitès de Solidaritat amb els Patriotes Catalans (CSPC), di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), del Partit Comunista de Catalunya (PCC) e del gruppo ambientalista Alternativa Verda.

Non solo: sono stati arrestati anche un giornalista del quotidiano El Punt e un altro del settimanale El Temps, il che ha scatenato proteste molto partecipate come la manifestazione che la Crida a la Solidaridad ha organizzato al Palau de la Música di Barcellona e il concerto che, con il sostegno di numerose organizzazioni, ha riunito diecimila persone nel parco Devesa di Girona.

Ragione di Stato
L’operazione Garzón, progettata in un periodo in cui Luis Roldán era a capo della Guardia Civil e il Ministro degli Interni era il socialista José Luis Corcuera, si inseriva in un contesto in cui lo Stato aveva bisogno di dimostrare la propria forza e di prevenire qualsiasi filone di dissidenza politica. Antoni Infante, uno degli arrestati, ricorda che “gli arresti sono stati così importanti perché lo Stato, oltre a dover affrontare i Giochi Olimpici, l’Anno Culturale di Madrid, l’Expo di Siviglia e la commemorazione del 500° anniversario della conquista dell’America, voleva dimostrare il suo impegno nei confronti del capitalismo dopo l’adesione alla Comunità Economica Europea e alla NATO, per cui non intendeva accettare nessun incidente che potesse turbare la sua immagine”.

Per il veterano attivista pro-indipendenza, l’operazione Garzón non può essere spiegata senza questo clima in cui, dai partiti catalani pro-indipendenza ai grandi sindacati, hanno cospirato per legittimare un modello economico di cui hanno beneficiato le grandi fortune e le élite estrattiviste. “È stata un’operazione di Stato, il problema è che Garzón si è spinto troppo in là, per cui la leadership di Convergència i Unió e alcuni membri del PSC hanno mostrato solidarietà ai detenuti. Ma lo hanno fatto in risposta alle mobilitazioni, perché si sono voltati dall’altra parte fin dall’inizio”, sottolinea Infante. Anche Pep Musté, arrestato e torturato nell’operazione Garzón, inscrive quanto accaduto nella volontà dello Stato di annientare i settori che mettevano in discussione lo status quo e, in particolare, l’unità territoriale sancita dalla Costituzione del ’78. “Nel 1992 eravamo in pochi, ma ogni volta che l’indipendentismo ha avuto un ruolo importante nel cambiare le cose, lo Stato si è sempre impegnato a reprimerlo con arresti e incarcerazioni”.

Nel caso degli arrestati da Garzón, nel 1995 l’Audiencia Nacional ne ha processati 25, di cui 18 sono stati condannati per appartenenza a una banda armata, anche se poco dopo il tribunale ha elaborato una richiesta di grazia in base al fatto che non rappresentavano alcun pericolo. Questa richiesta è stata approvata nell’agosto 1996 dal governo del Partito Popolare, allora presieduto da José María Aznar.

Un’eredità diffusa
L’operazione Garzón sarà ricordata anche per la causa che 17 delle persone coinvolte intentarono a Strasburgo per le torture subite durante la permanenza nelle segrete dell’Audiencia Nacional. La causa, coordinata dall’avvocato Sebastià Salellas nel 2000, è stata ammessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che, in una sentenza emessa quattro anni dopo, ha condannato la Spagna per non aver chiarito le prove di abusi e maltrattamenti. A parte questo fatto, Infante e Musté ritengono che, sebbene l’operazione abbia diffuso la paura nella società e danneggiato l’indipendentismo combattivo, non ha posto fine alla generazione che ha partecipato agli spazi più rupestri. “Tutti abbiamo continuato a fare cose e, a livello locale e settoriale, questo ha portato alla comparsa di numerosi casali, atenei e altre iniziative politiche”, dice Infante, per il quale “questo seme ha dato i suoi frutti nel processo iniziato nel 2010 e terminato con il referendum del 2017”.

Come Infante, Pep Musté sottolinea che nel 1992 ha contribuito a rafforzare la cultura antirepressiva dell’indipendenza, mentre, in seguito alla sentenza di Strasburgo, “ha creato un precedente per il lavoro che diversi gruppi di avvocati svolgono oggi”. Ma così come è servita ad aumentare la loro capacità di risposta, entrambi ammettono che c’è ancora una certa “dimenticanza” del significato di quell’operazione.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato spagnolo per non aver indagato sulle prove di abuso e maltrattamento dei detenuti.
“Quando abbiamo presentato il documentario sugli eventi in occasione del 20° anniversario, abbiamo osservato la mancanza di conoscenza che esisteva tra molti settori della popolazione e che siamo ancora agli inizi rispetto a dove dovremmo essere”, commenta Infante. A riprova di questa mancanza di memoria, il veterano attivista pro-indipendenza cita il riconoscimento ricevuto dal giudice Garzón, al quale rimprovera di non aver chiesto scusa per aver ordinato l’operazione e permesso la tortura, ma che gira per il mondo come grande difensore dei diritti umani. Musté sottolinea anche il fatto che nessuna televisione pubblica ha ancora trasmesso il documentario, cosa che, a suo avviso, impedisce di spiegare ciò che è accaduto nell’estate del 1992 e di denunciare la narrazione che lo Stato sta cercando di imporre su quel periodo. Lo conferma Infante, per il quale, nonostante il costo personale di rivivere l’episodio, “abbiamo l’obbligo morale di trasformarlo in un’esperienza collettiva, affinché il nostro popolo abbia più spazi di democrazia e libertà”.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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