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Dall’Irlanda all’Ucraina, da una guerra all’altra: attraverso il mirino del fotoreporter Yan Morvan

Disordini a Belfast durante lo sciopero della fame di Bobby Sands. Yan Morvan / Sipa

Inizia così: “L’autobus della stampa ci porta da Teheran al chatt-el-arab, il campo di battaglia tra Iraq e Iran per il possesso dei terminali petroliferi. (…) È stato il mio primo conflitto. Era l’ottobre del 1980 (…) L’orizzonte era rosso fuoco a 180 gradi e il suono del cannoneggiamento era accompagnato da un ruggito infernale (…) In questo calderone infernale, migliaia di uomini combattevano e morivano”. Yan Morvan aveva 26 anni quando ha vissuto il suo battesimo del fuoco e ha documentato il suo primo campo di battaglia. Quarantaquattro anni e quindici guerre dopo, da Belfast a Marioupol a Sderot, passando per Hebron e il sud del Libano, il famoso fotoreporter continua a catturare il “troppo umano” in tutta la sua gloria di caduto. È questo desiderio di guardare negli occhi i nostri tormenti e le nostre vicissitudini che viene esposto al centro fotografico dell’Hôtel Fontfreyde di Clermont-Ferrand, da giovedì 7 marzo fino al 1° giugno. Raccontare la guerra il più da vicino possibile. L’obiettivo del fotografo è semplice: raccontare la guerra il più da vicino possibile, occhio per occhio. Non per fascino, non alla ricerca dello scoop o dello scatto vincente – “anche se a volte può essere una forza trainante”, ammette – e nemmeno per interesse verso gli eventi attuali, ma piuttosto per il desiderio di registrare il mondo per le generazioni future. Da qui l’importanza di essere il più onesti, corretti, veri e quindi il più semplici possibile quando si preme il pulsante. In breve, qui non lavoriamo per il presente, ma per registrare la memoria del mondo e impressionare la morte al lavoro”. Yan Morvan ci invita a viaggiare nello spazio e nel tempo fino a questi campi d’onore, ad avvicinarci alla follia e alla bellezza dell’uomo, a prenderne atto e a prenderne coscienza.”Nominare un oggetto in modo errato è aggiungere alla disgrazia di questo mondo” scriveva Albert Camus nel 1944. A settant’anni di distanza, nell’era delle immagini, non è esagerato dire che fotografare male la vita non fa altro che aumentare l’infelicità. Questa mostra funge da antidoto. Il paesaggio, il corpo e lo sguardo sono il trittico del lavoro del fotografo. Dalle rivolte per gli hunger strikers in Irlanda del Nord del 1981 ai campi di grano ucraini di oggi e ai campi di battaglia dimenticati, senza dimenticare l’assedio di Sarajevo del 1992, questi tre punti focali sono sempre presenti, ma non fraintendiamoci: se il fotografo ci racconta il mondo e lo decifra per noi con un solo clic, non si tratta di geopolitica disincarnata. “Ho un approccio metafisico al mio lavoro”, confida. In questo senso, il titolo stesso della mostra, “Resistances mémorielles”, ci dice tanto di ciò che guida lo stato d’animo del reporter al lavoro, quanto dei soggetti che cattura con la sua lanterna magica.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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