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Il lato sinistro del cuore

Rita abbassò gli occhi, appoggiata allo stipite, poi mi abbracciò di scatto, sollevandosi sulle punte e mi baciò sulla bocca. Chiusi gli occhi mentre sentivo il calore delle sue braccia attorno al collo e il suo profumo dolce, ma fu solo un attimo, perché subito si staccò e scomparve dietro alla porta. Restai ad ascoltare lo schiocco leggero dei suoi piedi nudi sul pavimento e il cigolio rapido delle molle del letto, poi sospirai, presi il telecomando e accesi la televisione. Avevo sistemato un tavolo al centro della stanza, con una sedia davanti, la più rigida e scomoda che avevo trovato. Da lì potevo controllare la porta d’ingresso dell’appartamento, la finestra e la porta della camera di Rita. Non ero dentro, con lei, seduto sulla poltrona come lo studente per la stessa ragione per cui avevo preferito che chiudesse la porta: sapevo benissimo come sarebbe finita se l’avessi vista a letto e non volevo correre il rischio di farmi sorprendere. Del resto, le avevo sbarrato la vetrata che dava sul terrazzo, le avevo messo uno di quegli spray anti aggressione sul comodino e nel silenzio totale dell’appartamento riuscivo a sentire anche le molle del letto, ogni volta che si muoveva. A volte mi sembrava di sentire persino il fruscio delle sue gambe sul lenzuolo, ma forse era solo la mia immaginazione…
Alla televisione avevo tolto l’audio. La tenevo accesa solo per fissare qualcosa e non rimanere completamente al buio, rischiando un colpo di sonno. Avevo preparato un thermos di caffè, come quando ero di servizio notturno ai maxiprocessi e me ne versai un po’, nella tazza grande che tenevo sul tavolo, davanti a me, vicino al coltello a serramanico ed a una sbarra di ferro che avevo trovato a casa, in garage. Non avevo una pistola, non mi serviva. Non era con quella che avevo già ammazzato un uomo, tempo fa.
Rita si mosse, nella stanza e io mi irrigidii contro lo schienale di legno della sedia, ascoltando attento il sospiro metallico delle molle del letto, uno solo, breve, finché non tornò il silenzio. Provai a concentrarmi, teso e immobile, per sentirla respirare e piano piano mi convinsi che quel ronzio che sentivo nella penombra rischiarata dai bagliori intermittenti della televisione accesa era il suo respiro, lento, rilassato e regolare. Avevo voglia di entrare in quella stanza tiepida di sonno e di sedermi anch’io sulla poltrona, soltanto per guardarla dormire e mentre stringevo i denti per la rabbia pensai che odiavo quel bastardo di studente che lo aveva fatto tante volte e che adesso me lo impediva. Che fosse lui, l’uomo della notte, ormai era sicuro, ma c’erano alcune cose che mi preoccupavano e mi spaventavano quasi. Questo tizio invisibile che riesce a sapere quando Rita è sola e quando riceve delle lettere… che si infila dappertutto, attraverso le finestre chiuse e le porte sbarrate, come un fantasma… Toccai la sbarra di ferro con la punta delle dita e il contatto freddo mi fece rabbrividire. Mi tornò in mente quel giorno sugli spalti dello stadio, il mio sangue che mi colava su un occhio per la sassata e quello del ragazzo che mi aveva schizzato tutta la faccia…
Poi sentii l’urlo. Un grido acuto e corto, la voce di Rita, ma c’era anche un ringhio basso e roco, come quello di un animale, coperto dal cigolio isterico delle molle e dalla vetrata che sbatteva contro al muro. Afferrai la spranga e scattai contro la porta, aprendola con un pugno secco sulla maniglia, ma appena dentro mi bloccai di colpo. L’odore pungente e acido dello spray paralizzante che riempiva tutta la stanza mi prese alla gola, facendomi lacrimare gli occhi e dovetti aggrapparmi al muro per non cadere in ginocchio. Non vedevo più niente, ma sentivo un alito d’aria fresca sulla faccia che mi bruciava e mi lanciai contro quello, sbattendo con la spalla nell’anta della porta a vetri che dava sul terrazzo. Mi ritrovai contro la balaustra di marmo, mezzo fuori, ad aspirare l’ossigeno con la bocca spalancata, quando il primo colpo mi prese sull’orecchio, troncandomi il respiro in un singhiozzo roco. Il secondo mi prese sul naso, con uno schiocco secco che mi rimbalzò fin dentro al cervello e rimase a vibrarmi sui denti per una frazione di secondo, ma al terzo ero riuscito ad alzare le braccia e ad afferrare il bastone prima che mi colpisse ancora. Vidi Rita tra le lacrime che mi velavano gli occhi un attimo prima di sferrare un pugno in avanti, alla cieca, con tutta la forza che avevo.
“Ferma, ferma! sono io, Rita, smettila! sono io!”
Rita lasciò la scopa e si gettò su di me con tanto slancio che quasi persi l’equilibrio. Mi abbracciò, stringendosi contro il mio petto. La sentii tremare, forte, mentre singhiozzava. Chiusi le mie braccia su di lei e avrei voluto tenerla stretta finché non avesse smesso ma lanciai un’occhiata oltre il terrazzo e vidi qualcosa sull’erba, appena un metro più sotto. Era un cappello.
“Resta qui. Io torno subito”.
“No, no! non lasciarmi sola!”
“È finito, non c’è più pericolo… è finito tutto e adesso vado a prenderlo”.
Avevo perso la sbarra ma non ne avevo bisogno. Scavalcai la balaustra e saltai di sotto, accanto al cappello sull’erba. Il giardino era piccolo, circondato da un muretto abbastanza alto. La luna quasi piena illuminava il prato, coperto solo in un angolo da una macchia folta di alloro, piantata in mezzo ad una corona di terra fresca. Non poteva aver fatto in tempo a girare attorno alla casa per scappare dal cancello che, riuscivo a vederlo anche da lì, era ancora chiuso come l’avevo lasciato.
Socchiusi gli occhi, fissando l’ombra frastagliata della macchia d’alloro. Era lì dentro, il bastardo. Potevo immaginarlo che mi fissava, in mezzo alle foglie e mi vedeva ringhiare tra i denti, con i pugni stretti, pronto ad ammazzarlo.
“Non mi scappi più, maledetto, vieni fuori! vieni fuori o vengo a prenderti io!”
Ma al momento di fare un passo in avanti notai qualcosa che mi fece paura. Non c’erano impronte nella terra fresca, appena smossa dalla vanga, che circondava la macchia di alloro. E poi… c’era un intero flacone di Mace nella stanza e gran parte di quello Rita doveva averglielo spruzzato nella faccia, ma invece di strangolarsi, come era successo a me, questo bastardo era saltato giù dal terrazzo. E prima aveva aperto senza un rumore la vetrata che io stesso avevo sbarrato. L’idea del fantasma, forte e irreale, tornò a farmi rabbrividire…
Il vento che soffiò improvviso per qualche secondo fece fremere le foglie, scuotendo le punte dei rami. Mi parve che un ramo continuasse a muoversi anche dopo che l’aria era tornata immobile, poi un’altro più sopra e uno più alto ancora. Scattai come una molla, girando attorno alla macchia, senza badare a coprirmi ma non ce n’era bisogno. Dietro l’alloro il muro era sbeccato, in cima e c’erano tre rami robusti, uno sopra l’altro, come una scala.
Figlio di puttana.
“Questo è il saldo, detratto l’anticipo e questo dovrebbe bastare a coprire le spese. Rita la ringrazia e la saluta”.
Il pittore aveva in mano una busta gialla, che mi teneva puntata addosso, come una pistola. Io rimasi con le braccia incrociate sul petto, senza prenderla.
“Perché?”
“Perché riteniamo di non aver più bisogno di lei. Perché non serve a niente. Perché ieri sera a momenti qualcuno faceva del male a Rita”.
Abbassai lo sguardo, imbarazzato e strinsi i denti per la rabbia. Era vero.
“L’ho quasi preso. Quasi. Una ragazza mi ha dato l’indirizzo di un capanno da pesca e sono sicuro che si nasconde là il bastardo… o che ha lasciato qualche traccia che…”
“E intanto la mia Rita sta qui a fare da bersaglio”.
La sua Rita…
“No, investigatore… ammetto di essermi sbagliato, non erano coincidenze e c’era davvero qualcuno, ma non è di una guardia del corpo che abbiamo bisogno. Qui non si tratta di sorvegliare o di proteggere… qui c’è una cosa sola da fare. Portarla via”.
“Portarla via?”
Il pittore mi guardò negli occhi, arrotolando la busta attorno alle sue dita sottili. Socchiuse le palpebre perché si era accorto, dall’espressione dei mei occhi, che io mi ero accorto di quella dei suoi. La mia era paura. La sua odio. Non mi chiese ancora se avevo cambiato idea su Rita. Mi infilò la busta dentro il taschino della giacca, arrotolata stretta come un sigaro.
“Sono anni che non vado in vacanza e questa mi sembra proprio l’occasione giusta. Non so ancora dove porterò la mia Rita, ma le assicuro che staremo via tanto che quando torneremo questo maniaco si sarà dimenticato di tutte le sue fissazioni. Forse anche lei, investigatore, si sarà dimenticato di Rita”.
“Dov’è adesso?”
“Non c’è. Dorme e non può essere distrurbata”.
“È daccordo con lei? lo vuole anche Rita, questo?”
“Quasi. Ma riuscirò a convincerla. Questa sarà l’occasione giusta per convincerla di tante cose… lasciare quel maledetto lavoro che fa, smetterla con certe… distrazioni, una volta per tutte. E arrivato il momento di fare le cose giuste e io so quali sonole cose giuste per la mia Rita. Le manderemo una cartolina, investigatore. Addio”.
E di nuovo quella luce, tra le palpebre, fredda e cattiva. Come la mia.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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