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Il lato sinistro del cuore

Il capanno da pesca era proprio in fondo al canale, sulla punta dell’argine, quasi nascosto dal canneto. Lasciai la macchina sulla strada e corsi lungo la barriera, finché non fui abbastanza vicino per salire sulla sponda. Cominciò a piovere, una pioggia sottile, che sapeva di sale ad ogni folata di vento.
La porta era chiusa e le finestre sbarrate, tranne quella sul canale, da cui uscivano le braccia dell’argano che sollevavano la rete. C’era odore di marcio da quella parte, un odore forte e dolciastro, quasi insopportabile, che aveva richiamato nugoli di zanzare in attesa sul pelo dell’acqua putrida. Mi passai una mano sugli occhi, per asciugare la pioggia salata che mi bagnava il viso e mi sporsi per guardare. C’era qualcuno, dentro, un’ombra immobile, in cui riconoscevo la sagoma di un volto. Era fuori dal mio angolo visuale, ma dall’ombra sembrava fissasse proprio la finestra e mi ritirai di scatto, con uno scricchiolio di legno. Trattenni il fiato, mentre il vento fischiava tra le canne, poi tornai a sporgermi per guardare. L’ombra si era mossa, aveva girato di lato, tanto che la curva del naso era scomparsa e non sapevo se guardasse verso di me o dall’altra parte. Tornai indietro facendo più piano possibile. Mi fermai davanti alla porta. Aspettai.
Se si era accorto di me, forse quel bastardo sarebbe uscito e l’avrei preso. Ma forse era lui che mi aspettava. Magari aveva una pistola. Oppure non c’era neanche, era solo un’ombra, un fantasma invisibile… Presi un sasso e lo strinsi forte in mano. Non avevo paura. Uomo o fantasma che fosse l’avrei portato a Rita, vivo o morto e a quel suo pittore. Che avrebbe dovuto lasciarla. Vivo o morto anche lui.
Lanciai un’occhiata ai cardini della porta e alla consistenza del legno, poi contai fino a tre e scattai in avanti. Cedette alla prima spallata, con uno schianto umido e improvviso che mi fece cadere sulla soglia, dove rimasi immobile, pietrificato, col mio sasso in mano.
Lo studente dondolava appeso ad una trave, con le punte delle scarpe a pochi centimetri dal pavimento, la testa inclinata su una spalla dal nodo storto della corda. Girava su se stesso ad ogni folata di vento che entrava dalla finestra e lo fece anche allora, voltandomi le spalle. Ero sicuro che fosse lui, anche se del volto, coperto di mosche e di zanzare, non rimaneva quasi più nulla e i vestiti gli pendevano addosso come un sacco vuoto. Era morto da tempo, tanto tempo. Sicuramente più di un mese.
Questa volta la porta del garage era aperta. Entrai da lì e salii di corsa le scale appena vidi che l’auto del pittore c’era ancora. Non mi preoccupai del rumore dei miei passi sui gradini di legno, perché di lui, adesso che non era più un fantasma sconosciuto non avevo più paura. Mentre ero steso sulla soglia del capanno, rannicchiato su me stesso come un feto e mi dicevo che non era quello il momento di abbandonarsi ai conati e vomitare, avevo pensato che se non era lo studente l’uomo della notte, allora riuscivo a capire come avesse fatto ad entrare in un garage chiuso dall’interno e a sapere degli spostamenti di Rita e delle lettere… quel bastardo di un pittore col suo sguardo carico d’odio… e mentre grattavo con le unghie il legno fradicio della porta per alzarmi pensavo che dovevo fare presto, correre in macchina e fare presto, correre da Rita prima che la portasse via o le facesse del male, presto, presto… e lo gridai, forte e continuai a ripeterlo mentre uscivo dal capanno a quattro zampe, come un cane e poi correvo lungo l’argine, sotto la pioggia salata che mi sferzava la faccia…
“Rita! Rita, dove sei!”
Si sentiva parlare, in mansarda. Poco più di un sussurro, quasi un singhiozzo, che mi fece rabbrividire violentemente.
“Non toccarla! ti ammazzo se la tocchi, bastardo! giuro che ti ammazzo!”
Il pittore uscì dalla stanza con gli occhi sbarrati e si fermò sulla soglia, un paio di gradini sopra di me. Io alzai i pugni, pronto a colpirlo, ma lui si appoggiò allo stipite, barcollando. Dalle dita sottili con cui si stringeva la gola zampillò uno schizzo denso di sangue, che gli scese sulla camicia mentre scivolava a terra, di lato. Dietro, riflessa nel vetro di un quadro che a ritraeva nuda con le mani a coppa chiuse davanti, c’era Rita, immobile, con lo sguardo spento. Portava un cappello e un soprabito scuro. Lasciò cadere il rasoio insanguinato sul pavimento quando la presi per le spalle e mi sorrise, con quella piccola ruga che le veniva all’angolo della bocca, tutte le volte che tendeva le labbra.
Io non sono uno psicologo, sono un investigatore privato che si occupa di recupero crediti e prima ero solo un celerino col manganello facile. Non so cosa fosse a spingere Rita ad ammazzare tutte le persone che credeva di amare… forse il senso di colpa per quello studente che si era impiccato per lei, un senso di colpa talmente insopportabile da far uccidere invece che uccidersi da sola. O forse la nostalgia di un amore così forte da far rivivere il passato sostituendosi a quel ragazzo che riusciva ad amarla anche soltanto guardandola dormire… un amore malato, ma così grande che anche adesso, quando ci penso, devo stringere i denti per non farmi sopraffare dalla rabbia e dalla gelosia che mi ribolle nel sangue.
Comunque… mi ricordo che pioveva ancora mentre aspettavo davanti al semaforo rosso, all’angolo del commissariato. Rita si era addormentata, rannicchiata contro il sedile di dietro, i pugni stretti sul petto, come una bambina. Cercavo di pensare a quello che era, un’assassina… un assassino, ma per quanto mi sforzassi non ci riuscivo. Fui contento che avesse un nome, Rita, che non poteva essere trasformato in niente di diverso da quello che lei era adesso. Mentre fissavo le gocce di pioggia che scendevano sul vetro posteriore pensavo che c’erano solo due alternative. Lasciarla andare, col rischio che uccidesse ancora o portarla alla polizia e farla smettere. Lasciarla andare o farla smettere. Riportarla a casa o mandarla in prigione. Non per gli omicidi che aveva commesso… anch’io avevo ucciso, per rabbia e non per difesa e non ero andato in galera per il buon none del corpo. No, era per quello che avrebbe potuto fare quando…
Ecco, ricordo che è stato in quel momento che ho appoggiato la fronte al sedile e ho sospirato così profondamente da sentire male. Perché mentre pensavo che Rita aveva ucciso tutte le persone che aveva amato dopo lo studente, come il rappresentante, il tennista e il pittore, mi venne in mente che in tutto il tempo che ero stato con lei, distratto, abbandonato e anche indifeso, ecco, a me non aveva mai fatto niente. Proprio niente. Poi scattò il verde e partii.
Da quel giorno gli omicidi sono cessati. Non so se la decisione che ho preso sia quella giusta, ma adesso Rita è tranquilla e quando la incontro, ogni tanto, parla e ride e mi racconta quello che le succede, il lavoro, le nuove relazioni, i problemi… e una volta, ma una volta soltanto, abbiamo anche fatto l’amore. Perché non l’ho portata in prigione, Rita, non potevo… l’ho riportata a casa.
Tutte le notti, quando dorme sola, scavalco il muretto del giardino, salgo sul terrazzo e con un cacciavite apro la vetrata. Poi mi siedo sulla poltrona e resto a guardarla. Lei continua a dormire, non apre mai gli occhi e non si muove, ma io lo so che mi sente.
Qualche volta, quando sono sicuro di non svegliarla, mi sporgo in avanti e la bacio sulle labbra.

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Appunti di una crociata contro la parola intesa e interpretata come ribellione al diluvio verbale che segna la deriva dei nostri giorni. L’occhio avido del giornalista si tuffa in un luogo chiuso a tutti gli sguardi e profana il tempio dei silenzi dell’ultra-nazionalismo in Europa. Un Candide del terzo millennio che esplora, dissacra e perturba.

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